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NOSTRA SIGNORA
DI BONACATU VIENE
DA LONTANO
di Ennio Porceddu
(20-9-2023) La devozione per la madonna viene da lontano. Migliaia di pellegrini giungono da tutte le parte della Sardegna, dal Continente e perfino dall'estero in segno di devozione. Bonacatu significa " buona accoglienza" A Bonarcado in Sardegna, si festeggia la Madonna de Bonu Accatu (foto dal web/Social), con la presenza di migliaia di fedeli provenienti da tutta l'isola che fanno del santuario della Madonna, uno dei più noti e venerati dell'isola. La devozione per la Santa è manifestata fin dai tempi più lontani. Il paese è anche adesso un centro di venerazione Mariana in Sardegna, molto frequentato. La festa si è svolta nella Basilica di Santa Maria, in uno dei santuari più venerati dell'Isola, voluta dai Camaldesi giunti da Pisa, a metà del XII secolo, e consacrata nel primo anno del dominio di Barisone I de Serra (1146 - 85). La festa è iniziata il lunedì 17 settembre con le confessioni, la recita comunitaria del Rosario e con la prima novena. Martedì 18, dopo l'accoglienza dei pellegrini giunti da tutta l'isola e le SS. Messe, alle ore 17,30 si é svolta la Concelebrazione Eucaristica nel sagrato della Basilica presieduta dall’Arcivescovo di Oristano. Alle 18,30 si è svolta la tradizionale processione lungo le strette viuzze del centro storico con il Simulacro di N.S. di Bonacatu protettrice di Bonarcado e della Diocesi di Oristano, preceduta in doppia fila dalle confraternite, tra i rintocchi delle campane festose e le marcette della banda locale. Mercoledì 19 settembre giorno della vera festa e anniversario della proclamazione del titolo di Basilica, si rammenta l'arrivo e l'accoglienza dei pellegrini che a piedi giungono al cospetto della Madonna. Dal giorno 20 al 28 settembre si svolge la seconda novena. Il giorno 30 si celebrano delle SS Messe in San Sebastiano e in Basilica, mentre dopo la recita comunitaria del rosario in Basilica, alle ore 17,30 dopo la Santa Messa ci sarà la processione che concluderà i festeggiamenti. In concomitanza alla festa di Bonacatu si organizza la sagra del torrone, con assaggio e vendita e la mostra dell'artigianato locale.
LA GROTTA DELLA VIPERA
IN UNA CAGLIARI FELICE E SOLARE
di Ennio Porceddu
(23-8-2023 / 18-12-2020) Sfogliando alcune riviste degli anni ’70 ho trovato un articolo che parla della Grotta della vipera (foto dal web/Social) e dei versi grafiti sulla pietra. L’articolo lo trovato su Terza Pagina cartacea (anno 1 N° 1 - 1977) intitolato “Cagliari : una città solare” di I. De Magistris. (Tenditum per longum Karalis). Vale a dire: Si passa attraverso una lunga Karalis. Parlando di una cosa che a noi cagliaritani ci appartiene, ne voglio riproporre alcuni passaggi.“Credo che non ci sia un cagliaritano che abbia un minimo di istruzione - scrive De Magistris - il quale facendo sfoggio di erudizione dovendo dare una qualche indicazione generale sulla città , non sappia citare il verso Tenditum per longum Karalis!”“Sono altrettanto sicuro che siano pochi i cagliaritani che sanno che la loro città è custode di alcuni versi grafiti sulla pietra nella Grotta della vipera. Sono versi – continua De Magistris che danno dignità poetica a un autore. Purtroppo scrive “ il poeta di lingua greca della Grotta è ignoto e che costituisce titolo di ammissione alla patria delle letture per la città che li conserva”.“A godimento di quanti non conoscono questi versi, li riporto nella traduzione italiana che esclude – chiarisce, non è mia altrimenti sarei un poeta. Ecco il primo verso: Dalle tue ceneri O Pontilla germogliano viole e gigli e possa tu cosi rifiorire nei petali delle rose” (Nec violae semper nec germinabit virga lilia ex favilla et tu Domine Pontilla revirida in petalis de rosis).“Purtroppo però, mentre è innegabilmente poeta chi ha scritto questi versi, si è dimostrato poco profeta. Infatti, i cagliaritani di tutti i secoli che sono seguiti non hanno eccelso nelle letture e nemmeno in poesia , tanto in lingua quanto in dialetto. Dicendo questo - aggiunge l’autore- non voglio essere ipercritico, ma intendo semplicemente affermare che, aimè, anche se qualcuno in questi ultimi due secoli emerso un poco, nessuno ha mai eccelso.
Quando ha scritto quest’articolo, il De Magistris aveva un problema che è oggi attuale: La città era piovosa. “Una città maledettamente piovosa”. Anzi, per meglio dire; un inverno maledettamente piovoso. Poi si tranquillizza affermando che la meteorologia di lì a poco lo conforterà un bel sole splendente di gennaio e febbraio e con l’azzurro del cielo. De Magistris in quel momento deve ritenersi fortunato: c’era la pioggia ma non c’era la pandemia.
La Grotta della Vipera" è situata nel Viale S. Avendrace. Il nome "Grotta della Vipera", deriva dalla presenza sul frontone di due serpenti scolpiti affrontati, il cui significato è stato variamente interpretato dagli studiosi: secondo alcuni, essi rappresenterebbero le figure divine di Isis e Osiris. secondo altri, si tratterebbe invece della rappresentazione simbolica di Lucio Cassio Filippo e di Atilia Pomptilla e, al contempo, della fedeltà coniugale, oltre che un monito ai passanti per il rispetto del luogo funebre. In realtà è un ipogeo funerario (ossia una catacomba scavata nella roccia). Cioè, un mausoleo familiare della nobildonna romana Atilia Pomptilla e del marito Lucio Cassio Filippo. Quest'ultimo, si volle affermare che era parente dell'anziano giurista Gaio Cassio Longino, esiliato in Sardegna dall'imperatore Nerone nel 65 d.C. Anche Lucio Cassio Filippo e la consorte Atilia Pomptilla erano stati condannati all'esilio nell'isola.
La facciata, della Grotta scavata nella roccia, riproduce quella di un tempietto in stile ionico composito di Cagliari, dove secondo gli amanti della città il cielo è più azzurro e fa manto allo scenario lontano dei monti dei sette Fratelli e di Serpeddi da un lato e dai monti di Capoterra dall’altro e alla distesa del Campidano, al luccichio dello Stagno di Santa Gilla, Molentargiu e al Golfo che i geologi chiamano Golfo degli Angeli. All'interno, il mausoleo è suddiviso in tre ambienti: un vestibolo, una prima camera funeraria, una seconda camera funeraria. Nel mausoleo risultano praticati sia il rito funerario dell'inumazione sia quello dell'incinerazione.
(Alcuni note sono da Google, altre da Terzapagina anno 1 numero 1 - 1977)
CAGLIARI, IL CASTELLO
E LE SUE FORTIFICAZIONI
di Ennio Porceddu
(20-8-2023) Il "Castrum Karalis", sorse sul colle di Cagliari nel periodo punico - romano. Secondo alcuni studiosi, "Castrum Karalis" è la traduzione letteraria di "Presidio militare costruito nella rocca". Il castello di Cagliari (foto di Augusto Maccioni) è, infatti, ubicato sopra una rocca, con strapiombi e dirupi scoscesi che ne fanno una barriera naturale (fortificata con torri e bastioni dai pisani prima, dagli spagnoli e savoiardi poi) che, per il sistema difensivo diveniva in sostanza inespugnabile. "Quando e da chi - scrive R. Carta Raspi - sia stata per la prima volta fortificata Cagliari, non ci è dato conoscere con certezza, se essa fu fondata , come si ritiene, dai fenici probabilmente fu da questi difesa con 29 mezzi che allora conosciamo in uso. Il nome della città, che in lingua fenicia significa appunto "città forte", potrebbe confermare questa supposizione". Si sa per certo che, durante le guerre puniche o nel periodo dell'occupazione dei romani, molto esperti nelle costruzioni, le fortificazioni non erano di certo trascurate. Cagliari era troppo importante per essere lasciato indifeso dagli incursioni che arrivavano da terra o dal mare. La prima notizia fondata risalirebbe all' 852, quando per il riscatto dell'Isola al governo bizantino, fu mandato, con una flotta, il duca Giovanni. Dopo essere sbarcato nelle coste meridionali della Sardegna, assediò la piazzaforte, ma la guarnigione resistete agli attacchi e, venendo fuori all'improvviso, riuscì a sorprendere gli assedianti bizantini che levarono le tende e ripartirono in tutta fretta per Cartagine. Al castello si poteva accedere solo da un ingresso, questo per dare meno possibilità ai nemici di entrare. Infatti, quanto minore erano i varchi di accesso, tanto più era imprendibile. Sempre secondo il Raspi - non doveva esserci nessuna delle tre che esistevano durante la potere pisano. Dove fosse la porta d'ingresso non è dato a sapere. Forse, sempre secondo lo storico Raspi, la porta d'ingresso poteva essere situata all'altezza del burrone di San Guglielmo, nella zona di Stampaxi. Davanti all'ingresso doveva esserci un ponte levatoio mobile e a fianco una torre (Todeschia o Franca), indicate dagli aragonesi durante il tentativo di fuga di Brancaleone Doria, avvenuta in quel sito. Nel XIII secolo fu sede di potere politico - amministrativo - economico ed ecclesiastico e luogo d’attività artigianali associati in" confrarias” o "gremi". Inoltre, sede d’iniziative culturali, mondane e di tornei cavallereschi. "Entriamo nell'antica porta pisana dalle alte case - annotta nel secolo XIX lo scrittore Gaston Vuiller - dalle lunghe infilate di strade strette, e usciamo da una delle porte della cinta che si apre nella torre dell'Elefante. Due torri quadrate dominano questo quartiere alto di Cagliari; la sua costruzione risale al 1300”. Secondo Francesco Corona, autore della Guida dell'Isola di Sardegna (Ist. Ital. d'Arti Grafiche - 1895 - Bergamo), Cagliari fu fondata "nel XII secolo av. Cristo dai Fenici, approdati nelle coste meridionali dell'Isola, dove impiantarono un sito dove sorse Cagliari, una delle stazioni navali moderne chiamate "Fattorie". Da qui - secondo lo storico Brochart - ebbe origine il nome di Cagliari, traduzione della voce fenicia Karir. Da Karir si ebbe 30 Karalibus e Carales, da cui, per corruzione di lingua Caralis e quindi Cagliari". Alberto Boscolo afferma che la città di Cagliari "era abitata sin dal periodo neolitico come attestano gli scavi effettuati nella grotta, di S. Elia, fu quasi certa, mentre nel periodo in cui i fenici navigavano e predominavano nel Mediterraneo, per la posizione del suo golfo, un sicuro approdo per le navi di Tiro, dirette in Spagna". Intanto, mentre Cagliari diveniva sede dell'omonimo Giudicato, la rocca di S. Igia (S. Gilla) fu abbandonata perché, meno fortificata, opponeva meno resistenza ad un possibile assedio. Il castello di Cagliari costituiva in qualunque momento, un luogo molto più sicuro in caso di attacco. C'è poi da dire che la capitale del Giudicato cagliaritano fu sempre Cagliari e non la roccaforte di S. Igia. Con l'abbandono della rocca di S. Igia, la vita si svolse, oltre, "oltre che nel castello, nei quartiere basso della Marina, detto allora Lapola, quartiere marinaro per eccellenza, ma più che nella marina, la vita si svolse, attiva, nel Castello: i più ricchi mercanti di Pisa vi avevano case, botteghe, magazzini; i banchieri vi avevano i loro rappresentanti" (A. Boscolo - Profilo storico della città di Cagliari - Valdes 1982). Gli altri quartieri, oltre a Lapola, erano Villanova e Borgonovo, quest'ultimo fu edificato verso la metà del XIII secolo, all'esterno delle mura di Stampace (Stampaxi), intorno alla chiesa di San Francesco, che era presente nel Corso Vittorio Emanuele, oggi conosciuto anche come Su Brugu (Il borgo) . Le fortificazioni del Castrum Karalis, all'epoca dei Giudicati, non dovevano essere molto differenti dalle antecedenti, né da quelle consolidate di tre torri, che si presentano nei primi anni della occupazione aragonese. Il castrum di Cagliari non fu mai espugnata anche se più tardi appartenne ai genovesi e ai pisani. Questo è da attribuire solo alla debolezza degli ultimi giudici che furono sconfitti in altro luogo.
PALAZZO PILO BOYL, PIETRA
MILIARE DELLA CAGLIARI DEL ‘700
di Ennio Porceddu
(12-8-2023 / 16-3-2021) A Cagliari palazzi che possono suscitare un certo interesse per il turista, non ne esistono, fatta eccezione per il palazzo Boyl (foto dal web/Social), la cui facciata imponente si affaccia sulla sommità del bastione San Remy che sembra sia a vigilare sull’incolumità della città. Una particolarità che ha incuriosito tutti sono le tre palle di cannone conficcati sulla facciata, che con l’aiuto di un binocolo si possono leggere le date: 1708, 1717, 1793. Risalendo alla storia, dal 1700 in poi, la città di Cagliari si trovò in conflitto con mezza Europa. A voler edificare il palazzo fu un discendente di Filippo Pilo Boyl, che nel XIV secolo aiutò gli aragonesi a sconfiggere i pisani e ad impadronirsi della rocca della città. Si racconta che i pisani quando lasciarono Castello, passarono dalla porta sotto la torre del Leone dove fu poi edificato il palazzo. Il conte Carlo era anche un architetto non molto originale, infatti, aveva l’abitudine di rifare quanto aveva visto in altre città del continente. Perciò volle costruire un palazzo di tale solennità che gli consentisse di ben figurare con i nobili della città. Perciò progetto l’opera che includesse la torre del Leone. Per far posto al nuovo caseggiato demolì una piccola torre del periodo pisano posta nel bastione di S. Caterina. Il palazzo Boyl risultò un enorme caseggiato di cinque piani in stile neoclassico. L’intenzione del conte era di dare al palazzo l’aspetto di un castello con una torre ai lati. Riuscì nel suo intento solo in parte: riuscì a erigere solo la torretta di sinistra, poi nel 1859 lo colse la morte. Pur non riuscendo a portare a termine il suo progetto, fece conficcare sulla facciata del palazzo le tre palle per ricordare le tre date di cui ho fatto cenno sopra. Poi, il palazzo è stato abbellito con la sistemazione di quattro statue che rappresentano le stagioni e al centro uno scudo con le armi delle famiglie Pilo e Boyl inquartate con i pali d’Aragona. A fine 1800 l'edificio appartenne alla famiglia Rossi, come ne simboleggia la "R", scolpita in qualche finestra. Attualmente ne sono i proprietari conti marchigiani Tomassini Barbarossa. L'edificio in stile neoclassico, è simile alla porta del Regio Arsenale militare e a porta Cristina, altre due opere di Carlo Pilo Boyl. Nell'edificio vi è una balaustra marmorea ornata da quattro statue, ognuna delle quali simboleggia una stagione, mentre nel mezzo è scolpito lo stemma del casato. Una mano che tiene un ciuffo di capelli (in sardo pilu) per il casato Pilo, un toro (in sardo boi) per la famiglia Boyl e quello d'Aragona (dei pali rossi su sfondo dorato). Il palazzo incorpora la torre del Leone (menzionata erroneamente "torre dell'Aquila") costruita dall'architetto Giovanni Capula, autore anche delle altre due torri di Cagliari: la torre dell'Elefante e la torre di San Pancrazio. Venne gravemente danneggiata nel 1708 dai bombardamenti inglesi, nel 1717 dai cannoni spagnoli e infine nel 1793 . Dall'attacco da parte dei francesi la torre perse la sua parte superiore e, ridotta quasi ad un rudere, venne incorporata nell'edificio.
CAGLIARI, LA STORIA DEL MONUMENTO
PIU' AFFASCINANTE DELLA CITTA'
CASTELLO SAN MICHELE O SANTU MIALI,
UN PATRIMONIO CULTURALE DI GRANDE IMPORTANZA STORICA
di Ennio Porceddu
(11-5-2023) Il castello di San Michele (Santu Miali) o "Castillo de S. Miguell" (foto di Augusto Maccioni), sorge a 120 metri slm, fu costruito nel secolo XIII, in età pisana, su di un insediamento monastico dedicato all'Arcangelo. Da qui deriverebbe il nome. Poi il maniero passò dai pisani alla famiglia aragonese dei Peralta. In seguito andò ai Carroz che lo rinforzarono e ne fecero un baluardo di difesa della città, favorito dall’eccezionale posizione. Ciò, consentì la vigilanza dalla pianura di tutto il Campidano, alle contrapposte catene montuose che lo delimitano fino al castello di Monreale. Nel 1600, I Carroz, lo abbandonavano. Per essere utilizzato in seguito quale lazzaretto. Un secolo dopo - secondo un antico documento esistente nell'archivio della capitale piemontese – gli fu dato nuovo valore quale punto strategico per contrastare l’invasione francese del 1793. Nel 1864, fu sdemanializzato e passò al nobile di San Tommaso. Alla fine del XIX secolo, infine, diventò monumento nazionale. Poi abbandonato all’incuria del tempo e degli uomini. Solo negli anni cinquanta si pensò di utilizzarlo cedendolo in prestito alla Marina Militare che ne fece una stazione radio. Finalmente, nel 1972, la Giunta Comunale di Cagliari, lo restaurò per riportarlo al suo antico splendore. I lavori iniziarono nel 1989 terminarono a metà del ‘96. Dal mese di febbraio ‘97, si può accedere fino alla sommità del monte omonimo, dove è ubicato il castello. Il Valery, a proposito del maniero scrive: “ Il castello di San Michele, a nord di Cagliari, sulla cima di una montagna, pittoresco per le sue torri in rovina, fu eretto dai Pisani nello stesso posto di una certosa”. Non appena i Pisani capitolarono, lo occuparono gli Aragonesi e divenne il sinistro maniero della famiglia Carroz. Il viceré Nicola Carroz, dopo essere stato il terrore della Sardegna e aver tenuto prigioniero il marchese di Oristano (suo nemico), perse alla fine dei suoi giorni, il figlio. Così si convinse d’essere perseguitato da un sortilegio, immaginario crimine per il quale denunciò la viscontessa di Sanluri; costei, pur essendo riuscita una volta a farsi assolvere come ribelle, non poté sfuggire a questa strana accusa. Berengario Carroz estese le fortificazioni del castello di San Michele, celebre nelle guerre tra i pisani e gli Aragonesi. Questa fortezza, in seguito adattata a servizio dell’artiglieria, fu trascurata dopo il ritiro in Spagna dei Carroz. Poiché la porta e il ponte levatoio erano a levante, gli attacchi potevano venire solo da sud, lato difeso da tre batterie. Vittorio Angius, nel 1835, afferma " E' quadrato, con tre torri simili, ma disuguali ai tre angoli in libeccio, scirocco e greco. Il perimetro somma a m. 144". Raimondo Carta Raspi (Castelli medievali della Sardegna, 1933), afferma: "Questo castello, in confronto agli altri della Sardegna, si presenta di modeste proporzioni, tozzo e rozzo nelle sue forme: e se dobbiamo giudicare dagli avanzi che ce lo mostrano non dissimile, dallo schizzo fatto dagli aragonesi nel 1358, non fu che un castelluccio che i pisani dovettero solo considerare d'importanza politica più che militare. E' quadrato, con tre torri, una delle quali più alta, in tre vertici, circondato da un fossato. Posto in un colle isolato, senza opere sussidiarie ai fianchi della collina, la sua mole e il suo presidio non potevano allarmare". L'Anonimo piemontese, nel 1759, nei suoi appunti "Descrizione dell'isola di Sardegna" annotta che il castello è "distante due miglia da Cagliari, detto di S. Michele, più forte per la sua situazione sovra di un eminente colle, che per le sue fortificazioni che vanno in rovina, e in esso non fanno dimora che alcuni invalidi per la guardia del medesimo". Oltre l'ingresso due stemmi: in uno il disegno del castello, nell'altro quello del proprietario. "Nel castello - afferma il prof. francese Philippe Brochard - il signore si fa collocare i simboli del proprio blasone dappertutto: sui muri, sui capitelli delle colonne, sopra le porte. Quando il castello è conquistato da un altro signore, questi si affretta a far sostituire i vecchi simboli con i propri".
STRUTTURA DEL CASTELLO
Il castello ha la forma di un quadrato e consta di due torri pisane, di una terza aragonese e di un muro protettivo. Tutto intorno, un fossato e al centro del maniero una cisterna. L'ingresso è sito tra le due torri pisane che guardano verso la pianura campidanese. La porta d’accesso aveva un sistema a saracinesca, usuale in tutte le fortezze medioevali. Nel 1902, il giornalista Yosto Randaccio, in una corrispondenza da Roma, a proposito delle disastrose condizioni del Castello di S. Michele, su L'Unione Sarda titola:Tesori abbandonati. " Il rovinoso maniero dei Carroz, visto dal luogo, ha la sembianza di una rocca imprendibile, desiosa di pace e di silenzio. Forse, è il ricordo della sua vita eroica, che lo richiama alla miseria nostra, misconoscente tutto un passato vergato a punta di lancia; forse è lo spirito dei suoi primi abitatori, i Certosini, aleggiante di nuovo fra quelle mura sacre per il ferro e per la pugna, che lo fa apparire cosi sdegnoso dello sguardo umano!. Difatti, chi è che non provi un eguale sdegno? Chi è che non senta tutto l'impeto di queste memorie, movendo il passo verso la rocca? La strada che colà vi conduce prepara l'animo vostro alla visione prossima: è tacita, dirupata, deserta, priva anche di un albero, di un campiccio che ne rallegrino la malinconica immensità. Qui né pure la dilettevole gaiezza del paesaggio sardo può vincere la tristezza vostra, poi che, giunti là su, la nudità di quelle pietre prive di qualunque ornamento architettonico, spoglie della più semplice voluta vi fa affollare la mente di tutto il passato glorioso di questo castello incombente come un falco su la vallata ove un di vissero di vita fiorente la Kalaris romana, la cristiana e la medievale, Santa Gilla, Santa Cecilia le due villae dei giudici cagliaritani". "Santu Miali - continua Yosto Randaccio - io l'avevo amato, adolescente, allorché nelle pagine di Leonardo Alagon, il romanzo storico di Pietro Carboni (l'infelice), io fremevo al dramma d'amore di Dalmazio Carroz e di Eleonora Alagon. Ricordate? Salvatore Cubello, Leonardo e Artaldo Alagon, il conte di Monteacuto, Nicolò Montagnano, Brancaccio Manca, Angelo Cano combattenti per il marchese di Oristano e per la libertà della terra sarda, Nicolò Carroz, Pietro Pujades, Angelo Marongiu uniti contro di essa, servi d'Aragona; fra gli intrighi e i tradimenti, segno del valore degli uni e degli altri, la battaglia di Uras e di Macomer. Certo, oggi, il castello non ha più vestigia di questo splendore di vita e di armi, non più le antiche tracce del convento certosino mutato in fortezza dai Pisani astuti; ma né meno tracce dell'opera di Raimondo Peralta che la curò e la munì più validamente per ordine degli Aragonesi! Le torri - secondo il Fara - furono aggiunte da Berengario Carroz, oggi sono smantellate; e il fossato già ripieno d'acqua contro gli assedi, è colmo di macerie e di detriti del castello stesso! Questa cura assidua verso la rocca feudale prova l'importanza di essa. Nel 1398 il re Martino d'Aragona inviava soccorsi d'uomini e di denaro per restaurarlo e difenderlo, e perfino nel 1637, quando i Francesi, sotto il conte d'Harcourt, attaccarono Oristano esso fu munita di artiglierie. I secoli passavano per la cima, ma il castello rimaneva intatto! Solo nel 1652 comincia la sua decadenza. La peste che dalla Catalogna aveva invaso la Sardegna settentrionale, ne fece un lazzaretto; e il La Marmora afferma che qualche decade prima della sua venuta in Sardegna era una caserma di soldati invalidi". A questo punto Yosto Randaccio, fa alcune riflessioni e si pone delle domande legittime che, però, non troveranno mai una risposta "L'incuria nostra poi ha distrutto ancora gran parte del castello: dove sono le tracce della porta d'ingresso? dove è andato a finire il suo ponte levatoio? Dov'è la sua saracinesca? chi li ha trafugati?" Poi se la prende con coloro che sono preposti alla tutela dell'arte e dei monumenti della provincia di Cagliari. "Li hanno, putacaso, usati come legna da ardere?" Secondo il Randaccio, nel 1860 Alberto La Marmora poté vederli, e aggiunge "Che il castello di Santu Miali, sia dichiarato, almeno, monumento nazionale".
IL 1°MAGGIO 1794 IL SANTO NON PARTI',
LA SAGRA FU RINVIATA AL 1° GIUGNO
CAGLIARI E LA SARDEGNA SI PREPARANO
A FESTEGGIARE LA 367ESIMA EDIZIONE DELLA GRANDE FESTA DI S.EFISIO
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di Ennio Porceddu
(30-4-2023) La città di Cagliari si prepara a festeggiare la 367esima edizione del santo più amato della Sardegna(le foto sono di Gianfranco Speranza). La popolazione onora questo santo martire da oltre trecento cinquant'anni . La città di Cagliari, per l'occasione, si riempie di fedeli e turisti che arrivano da tutte le parte del mondo per assistere alla più lunga è importante processione religiosa e folcloristica dell'isola. Il primo maggio Cagliari si veste a festa e assiste composita al passaggio del suo benefattore dalla chiesetta di Stampace, a lui dedicata, fino al Municipio in via Roma per poi proseguire fino alla chiesetta di Nora dove avvenne il suo martirio. Efisio,La Cagliari del '600 è tutta nei libri di storia e la pestilenza che travolse l'Italia non è una leggenda, ma è vera storia. Una pestilenza che poteva durare a lungo e che grazie alla intercessione di un umile santo, venne sconfitta. E di questo i sardi sono riconoscenti a S. Efisio.
Il primo maggio è anche, tempo permettendo, il giorno che i cagliaritani per tradizione, dopo aver assistito alla processione, fanno i primi bagni al Poetto. Francesco Alziator, uno dei massimi interpreti delle tradizioni cagliaritane e della Sardegna, reputa la sagra di sant’Efisio il “più grande convegno folclorico del Mediterraneo”. Scriveva Pietro Aleo che la città di “Cagliari è molto legata alle sue vecchie tradizioni, a quelle religiose. Basterà ricordare con quale tenacia sono conservate le processioni della Settimana Santa, che sono seguite da folle di popolo ed in cui certamente la manifestazione più singolare è quella dei cantori che forse ripetono musiche secolari che meriterebbero di essere studiate”.La festività che Aleo ha ritenuto più importante in assoluto per i Cagliaritani. è senza dubbio la sagra di Sant’Efisio del 1. Maggio, legata come è al voto al voto compiuto dall’Amministrazione Comunale nel 1656, per aver interceduto alla liberazione della peste che dal 1652 stava decimando la popolazione di Cagliari e dell’Isola. La processione del Santo Martire è continuata anno dopo anno, ad anno, anche quando nel 1943 la città era crollata sotto i bombardamenti. Questo potrebbe far credere che per 363 anni, la solennità sia continuata interrottamente, anno dopo anno. Tuttavia, non è andata sempre così, infatti da un documento, dell’archivio Comunale di Cagliari si evidenzia che il 1 Maggio dell’anno 1794, la sagra di Sant’Efisio non partì. Il precedente 28 aprile era scoppiata in città una rivolta causata dal diffuso malcontento, e per le turbolenze lo Stamento militare decise di non effettuare la manifestazione.
Tuttavia l’Amministrazione Comunale decise di celebrare la festa per quell’anno il 1º giugno, quando le acque si erano ormai calmate. Come è noto lo dicono i documenti di storia Moderna del Manno, e un ulteriore documento riproposto qualche anno fa, ricorda che Il 28 aprile 1784 a Cagliari scoppiò una rivolta ha causa dello scontento popolare per il mancato accoglimento delle richieste presentate in occasione della cacciata dei francesi dalle coste sarde. Tale rivolta si concluse con l’espulsione dei funzionari Piemontesi , che due giorni dopo furono imbarcati su cinque navi, poi trattenute in rada fino al 7 maggio, prima di prendere il largo.“In quei giorni di gravi turbolenze – continua Aleo – lo Stamento militare, che si può dire, sedeva in permanenza , credete opportuno proporre al magistrato della Reale Udienza, che aveva assunto il poteri di governo, la soppressione della festa di Sant’Efisio”. In effetti, la Reale Udienza accolse la richiesta, ma l’amministrazione Comunale non rimase molto soddisfatta, e infatti, un avviso pubblico in data 19 Maggio 1794, conservato nell’Archivio Comunale, il Magistrato Civico avvertiva che la festività di Sant’Efisio si sarebbe celebrata il 1 giugno successivo”.
>>>>>>>><<<<<<<<< Ad arricchire i libri di storia di questo Santo è uscito tre anni fa il volume "SANT'EFISIO - SAGRA, STORIA ANEDOTTI DEL SANTO MARTIRE" uscito dalla penna dei due giornalisti Ennio Porceddu e Augusto Maccioni per ILMIOLIBRO di Roma e stampato in Italia per il Gruppo Editoriale L'Espresso, contenente le foto di Arturo Bertolini, Ennio Porceddu, Raimondo Caddeo, Roberto Masala Azienda Autonoma Soggiorno - Turismo Cagliari e C. di Cagliari.
UNA PAGINA DELLA STORIA SARDA, LA SOMMOSSA DEI
VESPRI ISOLANI CHE COSTRINSE ALLA FUGA IL
VICERE' E I FUNZIONARI SABAUDI
28 APRILE E' GRANDE FESTA: SA DIE DE SA
SARDIGNA, IL RICORDO DELLA CACCIATA
DEI PIEMONTESI DEL 1794
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di Ennio Porceddu
(24-4-2023) L'insurrezione esplose (foto dal web/Social) nel momento in cui i piemontesi arrestarono l'avvocato Vincenzo Cabras e il fratello Bernardo al posto di Efisio Pintor, che era riuscito a scappare. Ma già iniziò un anno prima, quando i cagliaritani respinsero con grande determinazione i francesi. Sa die de sa Sardigna (Il giorno della Sardegna) è la ricorrenza popolare dei sardi che rievoca i cosiddetti "Vespri Sardi", cioè l'insurrezione popolare esplosa il giorno 28 aprile 1794 con il quale si cacciarono da Cagliari i Piemontesi e il viceré Balbiano in seguito al diniego del governo di Torino di esaudire le richieste che venivano dell'isola titolare del Regno di Sardegna. In effetti, i Sardi chiedevano che fossero loro riservata una parte degli impieghi civili e militari e una maggiore indipendenza rispetto alle risoluzioni della classe dirigente locale. Al rifiuto del governo piemontese di accogliere qualsiasi petizione, la borghesia cagliaritana sorretta da tutta la popolazione s'infiammò facendo nascere il moto insurrezionale. Le prime scintille della ribellione popolare erano già iniziate negli anni Ottanta del Settecento ed era continuato negli anni novanta interessando tutta la Sardegna. Le ragioni del malcontento, erano di ordine politico ed economico insieme, da riallacciare al 1793, quando l'isola era stata implicata nella guerra della Francia rivoluzionaria contro stati europei e contro e il Piemonte. Così quando si parla della storia sarda, dobbiamo tenere a mente i bienni 1793 e 1794. Dopo che i francesi, un anno prima, occuparono Nizza, Savoia e decisero di conquistare la Sardegna. La Francia era convinta che conquistare l'isola fosse un'impresa facilissima. La Sardegna era, al momento, nel caos con gli isolati scontenti e il governo piemontese incapace di difendersi. Invece accadde l'impensabile che i francesi non si aspettavano. Quando, febbraio del 1793, la flotta, capeggiata dall'ammiraglio Truguet, si affacciò nella rada di Cagliari e iniziarono il cannoneggiamento, trovarono un'eroica opposizione dei Sardi, in difesa della loro terra. Con tale opposizione si manifestava un sentimento nazionale, che portò a scriverla nella sua autobiografia Vincenzo Sulis. I sardi, giustamente, dai Piemontesi si aspettavano una riconoscenza e una giusta gratificazione per la fedeltà manifestata alla corona. Le cose però andarono diversamente. "Mostrandosi il Ministro Granirei contrario alle domande presentategli - scrive Pietro Meloni Satta - in nome degli Stamenti dai Deputati a ciò delegati, e accentuandosi sempre più la tracotanza, il contegno poco corretto, le satire e le insolenze continue dei Piemontesi contro gli Isolani, il malcontento assume proporzioni gravissime in tutta l’Isola, e specialmente nella capitale". La fiamma che fece perdere il controllo ai cagliaritani fu (il 28 aprile 1794), l'arresto disposto dal viceré di due capi del partito patriottico, gli avvocati cagliaritani: Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor. In breve i fatti. Intorno all'una di pomeriggio di quel giorno, una Compagnia di granatieri del reggimento svizzero Schmidt, scende dalla Porta Reale, a Cagliari, avviandosi verso il quartiere di Stampace. I soldati sono in uniforme di parata: la gente che passa pensa di essere di fronte ad un'esercitazione. Poi con un passo più veloce, una parte dei soldati si schierano accerchiando l'abitazione dell'avvocato Vincenzo Cabras. Fu predisposto l'arresto del Cabras e del genero, Efisio Pintor, anche lui avvocato, considerati dalle Autorità Piemontesi due pericolosi rivoluzionari ma quest'ultimo riuscì a scappare. Allora fu preso il fratello Bernardo. A questo punto - scrive Pietro Meloni Satta - "scoppia l’insurrezione nel sobborgo di Stampace. Si corre in folla forzando e bruciando una porta della Marina, e occupansi in pochi istanti le altre porte, e le batterie che guardano il mare. Nasce un vivissimo fuoco colle truppe con morti e feriti da ambo le parti. Il più duro conflitto avviene alla porta del Castello, chiusa e ben munita, di dentro, dalle truppe. Quivi si riversa la popolazione chiedendo, con grida furibonde, la liberazione dei due arrestati. Si da fuoco alla porta e si scala la muraglia. Penetrati in Castello si sostiene, per un’ora, un fuoco vivissimo colla truppa, che occupava le diverse imboccature delle strade, e ciò malgrado le rimostranze del marchese di Laconi e del Colonnello Schmidt: il primo dei quali, colle lacrime agli occhi, esortava il Viceré a far deporre le armi per risparmiare il sangue cittadino". La popolazione furibonda decise di cacciare dalla città il viceré Balbiano e tutti i Piemontesi. Incoraggiati dalle vicende cagliaritane, gli abitanti di Alghero e Sassari fecero altrettanto. Per dovere di cronaca storica, occorre segnalare che furono i macellai, nei loro costumi tipici, i primi a sollevarsi contro i Piemontesi, con Ciccio Leccis in testa, il capo popolo che arringò la folla facendo scoppiare la rivolta. Gli insorti, conquistato il Castello, sfondarono le porte e occuparono palazzo Viceregio. Per prima cosa, allegoricamente, nel ricordare la molla che aveva scatenato la sollevazione popolare e ad attestare un beffardo e tollerante spirito che sempre aveva contraddistinto i cagliaritani, nel palazzo del vicerè fu banchettato un ricco pasto di tutte le pietanze trovate nelle dispense, lasciate dai piemontesi. "Fuori i Piemontesi!" echeggiavano all'unisono nelle strade di Castello gli insorti. Don Francesco Asquer, visconte di Flumini a capo di oltre cento persone, arresta i Piemontesi presenti in Castello. In attesa del giorno dell'imbarco, previsto per il 7 maggio, i Piemontesi furono alloggiati e protetti affinché non patissero alcun disaggio. Il giorno stabilito, con le loro masserizie, sono accompagnati al porto e imbarcati. Al quel punto i cagliaritani incominciarono a chiedersi, perché lasciare ai Piemontesi tutti i beni rapinati ai Sardi? Allora fu suggerita l'ipotesi di chiedere un risarcimento immediato. A quel punto intervenne il macellaio Ciccio Leccis: "Lasciateli andare, che i sardi benché poveri non hanno bisogno della merda dei piemontesi". "Procurad' 'e moderare,/ Barones, sa tirannia, /chi si no, pro vida mia, /torrade a pe' in terra!" (Cercate di moderare / baroni, la tirannia, / ché se no, per la mia vita!, / tornate a piedi a terra! Recitano alcuni versi de Su patriottu sardu a sos Feudatarios (Il patriota sardo ai Feudatari). Fu un episodio sicuramente considerevole per l'isola, per quei moti antifeudali, anche se certuni non approva questa lettura dei fatti, che lo animarono. Nel 1993, il Consiglio Regionale sardo, con la legge n.44, ha istituito "Sa die de Sa Sardigna" come festa regionale, il 28 aprile di ogni anno, in ricordo di quell'avvenimento del 1794. Il"Giorno della Sardegna" è raccontato con manifestazioni culturali e una "rappresentazione scenica" degli scontri del 1794 nei luoghi reali, dove essi ebbero luogo. Molti i sardi e i turisti che si riversarono nel quartiere di Castello, ogni anno, per assistere con grande partecipazione, a tale rievocazione storica.
CAGLIARI NEL XVI SECOLO
Sigismondo Arquer,
l’uomo che osò sfidare
l’Inquisizione
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di Ennio Porceddu
(8-4-2023 / 8-6-2021) Cagliari nel XVI secolo (foto dal web/Social) era in mano alla corruzione e al malaffare. Tra le mura di Castello e col bene placido della Chiesa e dentro le stanze dei palazzi nobiliari, si complottava nell’ombra. Era anche il tempo in cui sulla cittadella si allungava all’ombra la mano nera della Santa Inquisizione, spesso utilizzata per sostenere o ostacolare oscure convivenze di dominio. In questo clima di tumulti, incertezze e contrasti, numerosi furono i personaggi che si identificarono per tenacia e audacia, elaborando alcune tra le più belle ed avvincenti pagine della storia dell’Isola. Uno di questi personaggi fu il giovane cagliaritano Sigismondo Arquer, che passò secondo gli storici del tempo alla storia come il “Giordano Bruno sardo”. Nato a Cagliari nel 1530 da nobile famiglia Arquer, il padre Giovanni Antonio era consigliere del viceré Antonio de Cardona: quando quest'ultimo fu accusato di negromanzia, Giovanni Antonio Arquer fu coinvolto e arrestato dall'Inquisizione, poi assolto. Sigismondo studiò a Pisa e a Siena, dove conobbe Lelio Sozzini. Terminò gli studi nel 1547 con la doppia laurea in Diritto Canonico e Civile presso l’Università di Pisa e in Teologia a Siena. Poi rientrò in Sardegna, l'anno seguente, per sostenere la causa del padre che era finito invischiato in conflitti con la nobiltà locale, in particolare con la famiglia Aymerich.. Infine, intraprese un viaggio verso Bruxelles alla corte di Carlo V, presente in quel momento anche il principe Filippo. Durante il viaggio sostò in Svizzera: conobbe in particolare Celio Secondo Curione e Sebastian Münster, che lo invitò a collaborare alla sua Cosmographia universalis, uscita nel 1550, di cui l'Arquer curò la parte riguardante l’Isola scrivendo “Sardiniae Brevis Historiae et Descriptio” nella quale erano contenuti disegni e carte geografiche di Cagliari e della Sardegna, con riflessioni personali, statistiche, descrizioni e contenuti storiografici di vario genere. Questo lavoro fu molto apprezzato da Carlo V e da quel momento il giovane principe Filippo, lo assunse al suo servizio. Dopo aver seguito la corte imperiale ad Augusta, nel 1551 si trasferì in Spagna. Nel 1554 fu nominato consultore fiscale per la Sardegna. Oltre che a viaggiare e conoscere uomini di grande intelletto, la carica di avvocato fiscale lo portò Sigismondo Arquer a mettere le mani su quei loschi affari che già trent’anni prima avevano portato Giovanni Antonio a smascherare i membri più in vista dell’aristocrazia feudale sarda. Fu soprattutto Salvatore Aymerich a reggere le intricate fila del malaffare cagliaritano e a muovere la potente macchina dell’Inquisizione contro Sigismondo Arquer. In virtù della sua amicizia con l’inquisitore Andrea Sanna, nel 1558, Don Salvatore l’Aymerich, (lo stesso che anni dopo fu il mandante dell’omicidio di Gerolamo Selles, fratello del magistrato pubblico Bartolomeo, avversario della potentissima famiglia e a sua volta intimidito e oltraggiato per aver accusato i feudatari di speculazioni illecite sul grano), riuscì a far aprire un fascicolo contro l’Arquer, montando una serie di accuse per eresia. Anche l’amicizia con il Centellas – accusato di eresia e condannato alla pena del rogo a Valencia nel 1564 – sarà strumentalizzata nel processo che Sigismondo subirà più tardi, le quali, però, caddero proprio grazie alla difesa che quest’ultimo riuscì a prepararsi e portare in tribunale di Madrid davanti al re. Conscio che Cagliari non era più una città sicura per lui, nel 1560 Sigismondo ritornò in Spagna. Ma il suo destino sembrava ormai tracciato. Nel 1562 con l’arrivo dell’inquisitore Diego Calvo, temuto, feroce, corrotto e deciso ad andare fino in fondo alla questione per il nobile cagliaritano la situazione peggiorò. Trascorso poco meno di un anno, Sigismondo fu arrestato definitivamente con l’accusa di eresia a Toledo. Si diede inizio ad un processo lungo e doloroso durato oltre sette anni, durante la quali Sigismondo provò in tutti i modi a difendersi, dichiarandosi fino all’ultimo cattolico. Provò perfino a evadere, per poi essere catturato e nuovamente rinchiuso nelle carceri del Sant’Uffizio. Fu torturato due volte con l’obiettivo di estorcergli quella confessione necessaria per porre fine alla questione. Sigismondo doveva dichiararsi colpevole e firmare la sua abiura. Ma non poteva accettarlo. Dichiararsi colpevole avrebbe significato ammettere il falso e non poteva. Anche a costo della vita. Fu usato contro di lui anche un “pentito”, il francescano Arcangelo Bellit che dopo aver ammesso i propri delitti era stato condannato all’ergastolo per aver negato l’esistenza del purgatorio e la presenza di Cristo nell’ostia; diventato accusatore segreto di Arquer, ottenne la riduzione della pena a soli tre anni di carcere, poi mutati in una semplice nota di biasimo. Sigismondo, in quei momenti di grande sofferenza, iniziò a scrivere un memoriale difensivo in lingua castigliana, annotando i suoi appunti nel retro delle carte processuali nelle quali erano riportate le accuse contro di lui. Quelli che inizialmente erano semplici annotazioni, diventarono un componimento poetico che egli intitolò “Passion”, composto di 45 strofe e 10 versi ottosillabi con rima baciata e alternata. Eseguita la condanna a morte il 4 Giugno del 1571 a Toledo, fino alla fine, nonostante le fiamme avessero già cominciato a lambire il suo corpo, Sigismondo, urlava la sua innocenza. Dopo aver sopportato otto anni di carcerazione preventiva e la tortura, il giovane nobile cagliaritano non volle mentire per salvarsi e con grande coraggio dichiarò di preferire la morte.
Storia sarda / La guerra fra Genova e Pisa.
L’assassino del giudice Chiano di Massa
e la distruzione del regno di Santa Igia
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di Ennio Porceddu
(31-3-2023) - Foto di Augusto Maccioni - Quando, nel 1164, Federico Barbarossa incoronò re di Sardegna il giudice d'Arborea Barisone I dietro il versamento di 4000 marchi (prestati da Genova), il debito non fu reso. Di contro, Genova tenne il giudice come ostaggio, impedendogli l'unificazione dell'isola sotto il proprio scettro. "Barione, ambizioso di regio diadema, provò quanta amara fosse la genovese amicizia e come grave pendesse il denaro della repubblica...").[1] Questa fu la scintilla che innescò la guerra tra Genova e Pisa per il dominio dei giudicati. Pisa, in ogni modo, ebbe il giudicato d’Arborea e mise a capo Guglielmo di Capraia. Alla morte del giudice, lo scettro passò a Mariano II, suo legittimo regnante e sostenitore della repubblica pisana. Nel giudicato di Cagliari, Pisa pur di conservare il dominio e i privilegi, non esitò a far assassinare il giudice Chiano di Massa. Colpevole di aver stretto legami con Genova (aprile 1256) in cambio d’aiuto militare, una maggiore autonomia politica per aver messo nelle mani dei liguri, le franchigie, le esenzioni e tutti i diritti goduti dai pisani. Morto Chiano di Massa, la sede giudicale di S. Igia, rimase nelle mani dei genovesi. Più tardi il nuovo giudice Guglielmo III di Massa dovette sottostare a un trattato molto pesante con Genova, ricevendo in cambio in feudo le terre giudicali, ad eccezione di Castro di Cagliari e la sede giudicale di S. Igia. L'accordo limitava notevolmente la supremazia del giudice. Tra il 1257 e il 1258, Santa Igia, fu assalita e distrutta da un’alleanza di forze pisane e locali. Il giudicato di Cagliari smembrato in tre parti: Quirra e l'Ogliastra andò ai De Capraia, mentre il Sulcis-Iglesiente andò ai Donoratico Della Gherardesca. Un anno dopo nel regno giudicale di Torres (1259), morì a Giudicessa Adelasia, figlia di Mariano II re di Torres e moglie di Ubaldo Visconti. La Giudicessa non lasciò eredi e il giudicato fu diviso tra la famiglia ligure dei Doria e quella dei Bas-Serra d'Arborea. In questo modo il giudicato logudorese ebbe fine. Intanto Pisa e Genova sempre assettate di potere fecero di tutto per avere il controllo di Sassari. Nel 1272 la città turritana si trovava sotto un podestà pisano. Solo a seguito del trattato del 1294 la città di Sassari passò ai liguri. Nel 1294, acausa delle continue lotte intestine tra le due repubbliche, Papa Bonifacio VIII concesse la Sardegna in feudo all'aragonese Giacomo II che - a sua volta - lo affidò al figlio Alfonso. Nel 1323, Alfonso d'Aragona, sbarcò nel golfo di Palmas (nel Sulcis) con 10 mila fanti e 1500 cavalieri e s’instaurò nel territorio sulcitano (12 giugno). Il giorno 30 dello stesso mese, sicuro dell'appoggio di Ugone IV d'Arborea (nuovo vassallo del re d'Aragona), cinse d'assedio Iglesias e, con il giudice arborense, si accampò nei pressi della chiesa di S. Maria. Gli abitanti e i pisani si batterono valorosamente, ma alla fine, stremati, dovettero capitolare con la resa (7 febbraio 1324).Nella battaglia perirono 12 mila uomini tra pisani, aragonesi e sardi. Alla morte di Ugone, la successione del giudicato passò al figlio maggiore Pietro, che giurò fedeltà di vassallo alla corona aragonese. Alla sua scomparsa (1347), il trono andò al fratello Mariano IV. Il nuovo giudice rifiutò di sottomettersi alla corona di Aragona e con l'appoggio dei sardi, oppose una dura resistenza nella capitale Arborense, all'esercito degli aragonesi guidati da Pietro IV. La ribellione di Mariano, gran legislatore intelligente e uomo di umana saggezza, fu coronata da molte vittorie. Così, nel 1368 riuscì a occupare il Logudoro e la città di Sassari; mentre un anno dopo s’impossessò di Iglesias. Nel momento in cui ormai mancava poco alla conquista di tuttala Sardegnae si accingeva ad occupare Cagliari, il giudice arborese, fu colpito dalla peste che presto lo portò alla morte (1376). Gli succedette Ugone III. Il nuovo giudice non ebbe molta fortuna: vittima di una congiura architettata dagli stessi oristanesi, fu assassinato, il 3 marzo del 1383, assieme alla giovane figlia Benedetta. Il regno di Arborea passò in eredità alla sorella Eleonora che, per due anni, armatasi, combatté gli invasori aragonesi. Nel 1388, D. Giovanni re d'Aragona ratificò il trattato di pace con la Giudicessa d'Arborea. La condizione degli aragonesi era di avere indietro le città di Sassari, Iglesias, Osilo, Luogosanto e Sanluri. Per di più, tutti gli ufficiali dovevano (ogni anno), sottoporsi al giudizio sindacale del re per frenare eventuali abusi di potere. Una pace disonorevole siglata con i catalani-aragonesi che però permise, alla legislatrice sarda, di liberare il marito Brancaleone Doria (1390) da una segregazione che ormai durava da alcuni anni e di ridisegnare gli antichi confini arborensi. Alla Giudicessa Eleonora, dobbiamo la "Carta de Logu" (1392), un codice di sagge leggi che concedeva al popolo un'importante forma di autonomia e aprì la gestione delle Ville e Contrade agli uomini stimati di estrazione popolare. Più tardi il re d’Aragona estese i codici a tutto il regno. Era l'inizio di una democrazia di gran rilevanza. La "Carta de Logu", è considerata uno dei più importanti strumenti legislativi del periodo medioevale. La legislatrice arborense morì nel 1402 di peste, lasciando un gran vuoto. Nel 1409, con la battaglia di Sanluri, il feudo fu trasformato e assegnato a Leonardo Cubello, un fedelissimo della corona aragonese che prese il titolo di Marchese di Oristano.
CHIA, LA COSTA DEL SUD
una realtà turistica
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di Ennio Porceddu
(11-3-2023) Oggi, con l’approssimarsi della primavera voglio parlare, per l’ennesima volta, di Chia (a pochi Km da Domus De Maria), la costa del sud, uno degli angoli più belli e ancora incontaminata della Sardegna sud-occidentale, con calette allo stato selvaggio, spiagge meravigliose, dune di sabbia finissima e un mare azzurrissimo cristallino e invitante che si perde all'orizzonte (foto di Augusto Maccioni). Di là dalle dune, un piccolo villaggio a schiera abbarbicato sulle colline circostanti si affaccia prepotentemente al mare, a "sa bidda beccia" (la città vecchia) di Bithia, con ristoranti e zone per la sosta. L’antico villaggio di Chia, importante centro fenicio e poi romano col nome di Bithia, si trovava in una piccola insenatura dove è presente una delle tante Torri costiere nel XVII secolo costruite dalla Corona di Spagna contro le incursioni dei corsari barbareschi. Tra le rovine portate alla luce in seguito ad una mareggiata, ci sono i resti di un tophet punico e l’antica strada che la collegava all’importante città di Nora. I turisti arrivano il mattino per "prenotare" una fetta di spiaggia, dopo aver percorso la statale 195, che da Cagliari, lasciati i centri di Capoterra, Sarroch, Villa S. Pietro, Pula e Santa Margherita, si biforca sulla sinistra verso Chia, a circa14 km. da Teulada. Chia si può raggiungere anche dalla parte opposta: basta immettersi nella statale Sulcitana e lasciarsi alle spalle S. Anna Arresi e Teulada. Dopo una serie di curve, che sembrano fatte apposta per ammirare lo splendido paesaggio boschivo, si devia per la strada costiera che porta a Chia La prima tappa, quasi obbligata, un piccolo ristoro all'ingresso, in località Chia, dove si può trovare di tutto: dalle sigarette, alle cartoline, dal gelato, al caffè. Una volta ristorati si può andare alla sede locale della Pro-Loco per avere informazioni su dove andare e anche per avere del materiale da consultare. Poi, verso le spiagge e le numerose calette. Con gran facilità il turista, se costeggia il tratto di mare, troverà la strada che porta fino al porto di Teulada, agli stagni tra Chia e Capo Spartivento, Cala Cipolla, Bithia,la Torredi Chia e l'isolotto de su Cardolinu. Un vecchio saggio affermava che " il primo amore non si scorda mai". Chi c'è stato una volta non può fare a meno di ritornare in questo paradiso d'incanto. Le insenature e le spiagge della "costa del sud" ammaliano il turista anche occasionale. Per la costa del sud, il turista non arriva solo dalla terra ferma, ma anche dal mare con grosse imbarcazioni con la convinzione di assaporare una vacanza che non ha confini. Sul posto, trova tutti i confort (alberghi, ristoranti, pizzerie), per vivere intensamente un’estate di sogno. Da questo punto di vista, sono in ogni modo convinto che per il turismo balneare si può fare ancora molto. Questo non è solo una mia convinzione, ma generalizzata: la zona di Chia può essere "rivalutata", con la creazione di nuove infrastrutture atte a soddisfare le esigenze del turista. In questo modo ne beneficerebbero tutti: operatori turistici, commercianti, artigiani. Basta buona volontà da parte organi preposti alla valorizzazione del territorio.
L’isola di Sardegna
e il cinema
di Ennio Porceddu
(13-2-2023) La Sardegna, secondo il mio punto di vista, è l’ambientazione ideale per film d'autore e storie di pastori e banditi. Non mi riferisco solo ai film con 007, la Bibbia, mostri marini, ma anche al cinema sardo che ormai imperversa nei nostri schermi. Qui riportiamo un elenco cronologico dei film girati o ambientati in Sardegna, dal cinema muto a oggi. La Sardegna si adatta molto bene all’isola deserta, dove naufragare. Oppure all’isola dura e selvaggia dove azzuffarsi e innamorarsi. La Sardegna inizialmente è stata l’isola di banditi e faide familiari. dove vendette e drammi deleddiane, rappresentano quasi sempre stereotipate e folcloristiche della società sarda. Sono tanti i film ambientati in Sardegna o comunque girati nell’isola fingendo di essere altrove: Caraibi, Messico, perfino la Scozia: La cronaca passa in rassegna tutto (o quasi) quello che è stato cinema in Sardegna segnalando, dove possibile, i luoghi precisi delle location cinematografiche. Alcuni, pochi, capolavori del cinema d’autore, molti invece i film da non da dimenticare tra western, fantascienza, spionaggio e diverse bizzarre curiosità..Le prime immagini cinematografiche girate in Sardegna sono di poco successive ai primi film dei Lumiere. Si tratta di “Voyage du Roi Humbert Ier en Sardaigne” di Francesco Felicetti, del 1899, che racconta la visita del Re Umberto I nell’isola. Ecco cosa scrivono diversi giornalisti italiani. elencando i film: “Uno dei più bizzarri forse è “2+5 Missione Hydra” del 1966. Il film non è esattamente un capolavoro indimenticabile, ma nella scena finale un’astronave atterra di fronte all’arco di S’Archittu, comune di Cuglieri. Il film si chiude con un lungo bacio appassionato dei due protagonisti con tanto di tramonto alle spalle e improbabili palme sugli scogli della bellissima baia. I primi veri film sono inevitabilmente legati ai romanzi della scrittrice Grazia Deledda. A volte si tratta semplicemente un’eco dei suoi temi e dei suoi personaggi, a volte sono direttamente tratti dalle opere della scrittrice. E’ il caso di quello che si potrebbe considerare uno dei primi film sardi, “La cenere” ( foto dal web/Social Eleonora Duse e Febo Mari in un fotogramma del film), del 1916, se non fosse che, per motivi di budget, in realtà venne girato nelle alpi piemontesi. Di sardo resta la storia, tratta dall’omonimo romanzo della scrittrice nuorese. Il film è storicamente importante anche perché è l’unico dove è possibile vedere recitare la celebre attrice teatrale Eleonora Duse. Probabilmente ispirato dalle trame deleddiane è anche “Cainà: l’isola e il continente”, film muto del 1922 di Gennaro Righelli. La protagonista è la pastora Cainà, interpretata dalla diva del muto Maria Jacobini, che fugge dall’isola e approda a Napoli. Questo invece è stato realmente girato in Sardegna, in varie parti della Gallura, fra cui Aggius, Bortigiadas, il nuraghe Oes di Giave, Santa Teresa e Costa Paradiso. Direttamente ispirato a un’opera di Grazia Deledda è “La grazia” del 1929, regia di Aldo De Benedetti, tratto dalla novella “Di notte” e oggi considerato tra i capolavori del cinema muto italiano. “Oro nero” (1942) di Enrico Guazzoni racconta i drammi dei minatori sardi e in particolare della zona di Carbonia – Bacu Abis. Del 1949 è “Altura”, opera del regista cagliaritano Mario Sequi. Il film è girato ad Aggius e racconta la storia di Stanis (interpretato da Massimo Girotti) che, al contrario dell’eroina drammatica Cainà, non fugge dall’isola ma anzi ci ritorna dopo una lunga assenza. Di questo periodo segnaliamo anche altri film, non sempre girati in Sardegna, ma che riportano le tematiche sarde della vendetta e sono spesso legati alle trame della Deledda, come “Le vie del peccato” (1946), “La legge della vendetta” (1949), “Delitto per amore – L’edera” (1950), “Vendetta sarda” (1951) e “Amore rosso” (1953). E’ invece del 1958 lo sceneggiato televisivo tratto da uno dei capolavori della Deledda, “Canne al vento”, oggi interamente recuperabile su Youtube. Uno dei più noti film girati nell’isola e tratti dalle opere della scrittrice vincitrice del premio Nobel è ancora oggi “Proibito” di Mario Monicelli, con Mel Ferrea e Amedeo Cazzai. Film del 1954, racconta la storia del giovane parroco Don Paolo che ritorna nell’isola e si trova coinvolto in una faida. Le riprese furono realizzate a Issi, nella chiesa di Saccargia e nei dintorni di Ardara. Qualche anno dopo, nel 1957, Gillo Pontecorvo gira “La grande strada azzurra”, tratto da un romanzo di Franco Solinas, con grandi attori come Yves Montand e Alida Valli. E’ la storia drammatica, ambientata in Sardegna, di un pescatore di frodo. Una nota a parte la merita uno strano e purtroppo introvabile documentario etnografico del 1956 prodotto dalla Disney per la serie “Genti e paesi”. Dopo essersi occupata di Svizzera, Arizona e cacciatori eschimesi, la Disney girò il medio metraggio “Sardinia”, nella versione italiana intitolato “Sardegna antica”, dove venivano raccontate – non senza un certo gusto per l’esotismo – le usanze tipiche del popolo sardo. Il 1961 è un anno molto importante: alla mostra del cinema di Venezia vince il premio come miglior opera prima “Banditi a Orgosolo”, il capolavoro di Vittorio De Seta, che nell’isola aveva girato già alcuni documentari negli anni 50 come “Un giorno in Barbagia” e “Pastori a Orgosolo”. Il film, girato in Barbagia, è interpretato da veri pastori e ancora oggi resta uno dei film simbolo della Sardegna anche nell’immaginario collettivo nazionale. Negli anni 60, grazie all’ottima salute dell’industria cinematografica italiana e probabilmente grazie anche al successo di “Banditi a Orgosolo”, sono molti i film che vengono girati nell’isola. Citiamo la famosa sequenza di “Deserto Rosso” (1964) di Antonioni girata nella spiaggia rosa di Budelli, diverse scene di “L’indomabile Angelica” (1967) e di “La calda vita” (1963) ambientato a Trieste ma girato principalmente a Cagliari e Villasimius, nell’oasi di Notteri. Del 1963 è anche una bella e amara commedia con Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant, “Il successo”, un film forse sottovalutato con un Gassman arrivista che si reca in Sardegna per acquistare terreni allo scopo di arricchirsi con la speculazione edilizia. Uno dei più noti film che questi anni riprendono le ambientazioni agropastorali. Si tratta di “Una questione d’onore” del 1966 di Luigi Zampa, film molto discusso, tra folclore e stereotipi, deve il suo successo anche alla presenza di Ugo Tognazzi che qui interpreta il protagonista, il contadino Efisio Mulas. In questo periodo sono girati in Sardegna anche film biblici come “La bibbia” (1966) del grande regista americano John Houston. Il produttore del film, Dino De Laurentis, decise di girare in Italia e scelse le montagne sarde per la sequenza in cui Abramo è messo alla prova da Dio che gli chiede di sacrificare suo figlio Isacco. Un’altra importante produzione di questo periodo è quella che riguarda il film “La scogliera dei desideri” (1968) con Elizabeth Taylor e Richard Burton, girato in parte a Capo Caccia, Alghero. Ma nello stesso anno vengono girati in Sardegna anche “Commando suicida” film di guerra con Lee Van Cleef, “Vacanze sulla Costa Smeralda” e “Donne… botte e bersaglieri”, entrambi film musicali con Little Tony.
Nel 1968 un piccolo spaghetti-western, “Giarrettiera Colt”, è girato nei pressi di Cabras. Film di certo non indimenticabile ma curioso per via dell’ambientazione “messicana” del piccolo villaggio di San Salvatore (Cabras) e delle piscine naturali di Su Pallosu. L’attrice protagonista, Nicoletta Machiavelli, l’anno successivo sarà l’interprete di un altro film realizzato nell’isola, “Scarabea – Di quanta terra ha bisogno un uomo” (1969) di Hans-Jürgen Syberberg. La trama è curiosa: un manager tedesco decide di acquistare terreni in Sardegna e fa una strana scommessa con i locali: diventerà il proprietario di tutta la terra che riuscirà a percorrere a piedi in una sola giornata. I temi della vendetta e dei sequestri sono centrali in “Sequestro di persona” del 1968, di Gianfranco Mingozzi, con protagonista Franco Nero, ambientato nel nord dell’isola. Dello stesso periodo e legati ad atmosfere simili sono anche “Pelle di bandito” di Piero Livi, e “Barbagia – La società del malessere” di Carlo Lizzani, ispirato alle vicende di Graziano Mesina, interpretato da Terence Hill. Anche “Come, quando, perché” (1969) di Antonio Pietrangeli ha alcune scene girate in Sardegna. Un’opera insolita, interessante e poco conosciuta di questi anni è “I protagonisti” (1968) di Marcello Fondato. In questo film, ambientato tra le cime del monte Limbara, un gruppo di ricchi turisti annoiati alla ricerca di forti emozioni incontra un famoso bandito sardo nascosto tra le montagne. Nel 1971 è la volta di un film certamente dimenticabile ma che riportiamo per dovere di cronaca: “Violentata sulla sabbia”, dramma a tinte erotiche girato a Siniscola, nella frazione di Santa Lucia. Il film merita una visione principalmente per le bellissime immagini della pineta e delle distese di sabbia bianca di quel tratto della costa sarda. Del 1971 è anche il thriller tedesco “Haie an bord”, ambientato in Costa Smeralda. L’isola è scelta come set anche per le riprese esterne del popolare sceneggiato fantascientifico “A come Andromeda” del 1972. La serie ha grande successo. Gli spettatori pensano di vedere la Scozia ma in realtà si tratta della Gallura. Nel 1974 esce un altro film che rilancia l’idea di una Sardegna deserta, selvaggia e incontaminata, ideale come set cinematografico dove ambientare un certo tipo di storie. Si tratta del celeberrimo “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” di Lina Wertmuller, con protagonisti Mariangela Melato e Giancarlo Giannini nel ruolo dei due naufraghi. Il film, che ebbe grande successo, è girato nella costa orientale dell’isola: Cala Fuili (Dorgali), Cala Luna (Baunei), Capo Comino (Siniscola) e Arbatax. La trama è nota: una ricca signora milanese e un marinaio meridionale e comunista naufragano su un’isola deserta. E’ l’occasione per una grottesca esasperazione dei conflitti di classe e dello scontro fra sessi. Del film uscirà nel 2002 un rifacimento, “Travolti dal destino”, di Guy Ritchie, girato più o meno nelle stesse location dell’originale, con Madonna e Adriano Giannini. Sulla scia del grande successo della pellicola della Wertmuller due anni dopo arriva una commedia che riprende il tema del naufragio, anche se in versione più comica e macchiettisti. E’ “Il signor Robinson, mostruosa storia d’amore e d’avventure” (1976) di Sergio Corbucci, con Paolo Villaggio novello Robinson Crusoe e Zeudi Araya nei succinti panni dell’indigena.
Certamente controverso ma oggi considerato un cult-movie nell’ambiente gay, è “Sebastiane” del 1976, girato a Cala Domestica dal regista Derek Jarman. Il film, bizzarro per vari motivi, è interamente recitato in latino e vede come protagonisti alcuni soldati romani che si lasciano andare all’ozio, alla passione omosessuale e al sadomasochismo. Siamo nel 1977 e questa volta l’isola non è un semplice set ma la vera protagonista della storia. “Padre Padrone”, dei fratelli Taviani, tratto dal romanzo omonimo di Gavino Ledda, ha grande successo e vince la Palma d’oro come miglior film al 30º festival di Cannes. Nello stesso anno James Bond atterra in Costa Smeralda. Buona parte di “007 – La spia che mi amava”, con protagonista Roger Moore e Barbara Bach, è girato in Sardegna: Palau, Santa Teresa di Gallura, Capo Caccia, Porto Cervo e San Pantaleo (Olbia). Qualche anno dopo Francis Ford Coppola, il grande regista di Apocalypse Now e Il Padrino, produce un film che racconta la storia di un’amicizia tra un dodicenne e un cavallo che lo salva durante un naufragio durante il quale i due finiscono – anche qua – su un’isola deserta. Il titolo del film è “Black Stallion” (1979) e la regia è di Carroll Ballard. Tra gli scenari del film ci sono la grande spiaggia di Piscinas e quella di Li Cossi, in Gallura. Ed è di nuovo un’isola apparentemente deserta l’ambientazione per il film fantascientifico “L’isola degli uomini pesce” (1979) di Sergio Martino. La protagonista è Barbara Bach, che aveva lavorato in Sardegna solo qualche anno prima per il film su James Bond. Gran parte del film è stato girato a Capo Caccia, nella spiaggia delle Bombarde di Alghero e nella Grotta di Nettuno. Proprio nella grotta, secondo quanto riportato da un giornale dell’epoca, una comitiva olandese – ignara della presenza della troupe – si era abbandonata a scene di panico vedendo uscire dall’acqua mostruosi esseri.Degno di nota, più che altro per la presenza di grandi attori come Ben Gazzara e Audrey Hepburn, è anche “Linea di sangue” (1979) di Terence Young. Alcune scene di questo film furono girate nelle campagne di Olbia.
IL CASTELLO DI SAN MICHELE ERA IL FIORE ALL'OCCHIELLO DEL SUO FEUDO
LA STORIA DI VIOLANTE CARROZ, CONTESSA "SANGUINARIA"
di Ennio Porceddu
(22-1-2023) La storia di Violante Carroz ha inizio nel momento in cui il padre Berengario muore nel (1470).. è l’inizio del suo dramma familiare perché è sottoposta ad una rigida tutela da parte dello zio Nicolò Carroz d' Arborea con il quale vive un secondo dramma. A 15 anni quando muore Dalmazzo, il suo primo marito.. Il 1470 non è un anno molto fortunata per la giovane Violante, anche se per la sua nobile discendenza è nominata contessa del castello di Quirra e contessa di Cagliari con sede nel castello di S. Michele ed un nuovo matrimonio con Filippo Castre Sol ( da cui ha due figli..Filippo e Giacomo) che la rende felice. Nel mese di aprile del 1471, per la prima volta la giovane Violante entra nel castello di Cagliari, convinta di essere ben accolta dalla popolazione, ma non è così: i castellani non sopportano di essere guidate da una donna: I cittadini , nei suoi confronti diventano insolenti, e Violante per fronteggiare quell’atteggiamento diventa dura tanto da guadagnarsi la fama di sanguinaria. In quel periodo, la giovane donna deve fare i conti con il destino e…con la morte che le porta via il suo secondo marito. Che la costringe a intraprendere una dura causa per la tutela dei figlio con la suocera. A quel punto, dopo un lungo viaggio in Spagna, chiede aiuto ai parenti spagnoli e dopo da 25 anni dopo rientra a Cagliari in compagnia del suo terzo marito Berengario. I suoi guai e le sue amarezze sembrano svanite, ama il destino è sempre in agguato e la colpisce duramente portandogli il primo figlio giacomo e subito dopo filippo nel 1503. La giovane Violante subisce con dolore questa tragedia,ma ben presto una nuova causa legale ,questo vlta contro di Carroz D’Arborea, suoi cugini, la riporta nella scena . Il motivo scatenante è uno strano avvenimento dopo la morte del suo tutore Nicolò Carroz D’Arborea nel 1504: durante la sepoltura nella chiesa di S. Francesco a Stampace, ( chiesa usata dai Carroz per le sepolture, la tomba del figlio Giacomo contiene gli addobbi con i colori del ramo Carroz d’Arborea. L'ira per la profanazione dei colori della sua casata costrinsero Violante ad un nuovo viaggio in Spagna per servirsi di nuovo dell'aiuto ricevuto in passato....ma questa volta, temendo un'attentato contro di lei, reda di proprio pugno un testamento che vede Guglielmo Raimondo Centelles, figlio della sua sorellastra Toda e di Luigi Centelles, suo unico erede universale.....indicando il suo luogo di sepoltura accanto alla tomba del figlio Giacomo,vicino all'altare nella chiesa di S .Francesco di Stampace.
Ma il destino ha ancora una volta le da dei momenti di felicità.......
Nel 1508 Violante Carroz incontra e si innamora di un tale Berengario Batroz....l'amore è troppo forte e cerca di sciogliere il suo vincolo matrimoniale con l'attuale terzo marito (anche lui di nome Berengario)....a questo punto interviene il parroco di Quirra, Giovanni Castangia, suo confessore personale, cercando di dissuaderla e rifiutando di aiutarla. Per tutta risposta Violante lo fa catturare ,impiccare per tradimento, lasciando penzolare il suo corpo per due settimane nella torre del castello di S. Michele di Cagliari a monito per la popolazione. Con questo suo gesto è scomunicata, dal parroco di Ales. Violante vive nel rimorso del suo gesto....scrive un nuovo testamento che annullando il precedente. Tra il 1509 e il 1511, Violante muore, dopo aver vissuto nel rimorso. Gli storici parlano di una Violante CArroz che si era ritirta tra le mura del castello di S. Michele a Cagliari, altri parlano di essersi suicidata gettandosi dalla rupe del castello di Quirra. Altri ancora che si è buttata dalla finestra più alta del castello di Cagliari.
Per altri..e forse è l'ipotesi più attendibile, passò il resto dei suoi giorni nel convento di S.Francesco di Stampace, in una stanza sul lato destro rispetto all'ingresso di via Mameli in espiazione per il delitto commesso. Su Violante Carroz la storia sono state imbastite diverse ipotesi che col tempo sono diventate Leggenda. La leggenda di Violante la Sanguinaria.
LA NOBILTA’ SARDA
NEL XVII SECOLO
di Ennio Porceddu
(31-12-2022) I nobili, rappresentavano, per consuetudine, il ceto più importante, e comprendevano la nobiltà feudale, la nobiltà titolata, la nobiltà senza titolo e infine i cavalieri. I titoli feudali si trasmettevano per regola ai discendenti maschi e femmine , con ordine di primogenitura e con prelazione di quelli a queste Agli ultrageniti delle famiglie insignite di titoli primo geniali, spettava il diritto di titolo nobile con l’aggiunta del primo dei titoli o predicati del primogenito. Il titolo è trattamento di “don” ai maschi e “donna” alle femmine, e spettava a tutti i membri delle famiglie che furono decorate del cavalierato e delle nobiltà prima del 1848. I più importanti feudatari quali i Borgia, gli Zuriga, i Centellas, risiedevano in Spagna consentendo che i loro feudi fossero amministrati da regidore o podatari. Nell’Isola risiedevano i piccoli e medi feudatari (Castelvì, Alagon, Zatrillas, Brondo, Crispi, Bou) che più delle volte entravano in lite con l’amministrazione e col ceto medio per non perdere i propri privilegi o per accedere alle cariche degli Uffici pubblici. La nobiltà senza feudo, di solito proveniva dalla casta dei burocrati e dei togati; il loro potere era esercitato attraverso le cariche pubbliche che spesso erano ereditarie. Altri nobili erano di provenienza mercantile (Aymerich, Manca, etc), che investivano i loro capitali nell’acquisto di feudi. Con i matrimoni combinati, poi, i feudi erano concentrati nelle mani di pochi, per cui ogni possibilità di accesso era quasi impossibile. Dal secolo XVI, il numero dei cavalieri e dei nobili aumentò: erano piccoli borghesi rurali e personaggi che appartenevano ai ceti bassi dell’amministrazione pubblica o alla borghesia urbana. Nel XVII secolo, poiché le finanze dell’amministrazione avevano la necessità di essere rimpinguate, per aumentarne il gettito, si procedete ad aumentare le concessioni dei privilegi: i beneficiari, tra i vari privilegi nobiliari, erano immuni dalle tasse feudali. Le condizioni economiche della nobiltà sarda non erano delle più floride. In questo modo i nobili feudali erano possessori di feudi e di Uffici pubblici: un esempio nel secolo XVII: i Castelvì.
Scrive l’Anonimo Piemontese: "La nobiltà della Sardegna è assai numerosa, e fra queste avvenne di antica e di moderna, come tutti gli altri paesi del mondo. Ve n’è titolata, altra che possiede feudi, che non danno titolo, ed altra senza feudi, e che vive di pensioni, e di altri redditi, ed anche col negozio". Le rendite feudali erano bassissime, spesso sottoposte da ipoteche; i feudatari di solito vivevano dei compensi derivanti dalla pubblica amministrazione e dai patrimoni, proprietà private, in certi casi non molto rilevanti, o da pensione. In seguito al Trattato di Londra, Vittorio Amedeo II di Savoia s'impegnava a conservare i privilegi degli abitanti del regno di Sardegna, come ne avevano usufruito sotto il dominio Austriaco e Spagnolo. Insomma, nulla doveva mutare. In quest'apparente tranquillità i sardi non si accorsero di aver cambiato un’altra volta “padrone”. La Sardegna era priva di leggi, senza commercio, senza dignità, e in balia ai briganti. Questa grave crisi era la causa primaria delle varie dominazioni straniere.
Il re sabaudo fece ben poco per migliorare le condizioni, a parte incrementare la coltivazione del tabacco, già di se incoraggiante durante la breve dominazione austriaca.
“Il peggior male di questo paese - scriveva da Cagliari il primo Viceré, il barone di Saint Remy al re Vittorio Amedeo di Savoia - è che la nobiltà è povera, il paese misero, la gente sfaccendata e senza alcuna attività, l’aria malsana, senza che ci si possa porre rimedio”. "Le plus grand mal que je vois dans ce pays c’est que la noblesse est pauvre, le pays miserable, et depeuplé, les gents paresseux et sans aucun commerce, et l’air mauvais, sans qu’on puisse y remedie".
Un altro piemontese lo informava che “le leggi e i privilegi del Regno sembrano fatti apposta per distruggere il povero; le tasse sui commestibili favoriscono il cittadino che ha da spendere, a danno del povero che vende”. "Sorte peggiore non poteva capitare”.
Lo Stato Sabaudo, esaurita l'azione che lo aveva portato alla crescita e alla affermazione in campo internazionale, durante il regno di Carlo Emanuele III (1730 - 1773) cade “progressivamente nell’inerzia politica anche al suo interno. Né tale situazione migliorava con il suo successore Vittorio Amedeo III. Il conte Vittorio Alfieri testimone di tale oscurantismo e inerzia politica lo annotta nella sua autobiografia.
In quelle condizioni si perpetua l’unica riforma pensata dal governo sabaudo: la soppressione di fatto dell’istituto parlamentare sardo attraverso il quale si manifestavano le richieste autonomistiche. La Sardegna, visto il periodo di crisi economica, di tutt’altro avrebbe avuto bisogno.
Il censimento del 1728 assegna all’Isola poco più di 310 mila abitanti di cui: 16 mila residenti a Cagliari (la capitale), per una densità pari a 12,87 per Km. 2. Molte regioni erano spopolate, le campagne incolte, le greggi affamate e magre. Quanti prendevano l’iniziativa di coltivare i campi o di allevare del bestiame, erano costretti a versare parte del ricavato ai feudatari in virtù di leggi feudali capestro, se si tiene conto che gran parte dei feudatari era assente dal mondo sardo e che quindi la poca ricchezza prodotta era trasferita verso altri lidi, si comprende quale fosse la drammaticità della situazione economica nell’Isola.
L’Isola non era solo questo: la sua posizione strategica ne faceva un boccone appetibile per qualsiasi potenza interessata a espandersi con i traffici mediterranei.
E’ certo che la grave crisi economica dell’Isola, i legami ancora saldi tra gli amministratori locali, la nobiltà e il clero, non permetteva nessuna speranza per sfruttarne le risorse, condizionandone fortemente il suo sviluppo economico e sociale.
Il geografo francese Maurice Le Lannou che ha soggiornato diversi anni tra il 1931 e, il 1941, visto, le situazioni in cui versava in quegli anni, hanno detto che “ non c’è forse al mondo un paese che la storia abbia segnato così profondamente”.
Il risveglio avvenne giusto in tempo - scrive Philips Dallas - per affrontare in tempo i vari attacchi dei francesi rivoluzionari a La Maddalena (presente il giovane Napoleone Bonaparte), all’Isola di S. Pietro e alla spiaggia di Cagliari. I Sardi che fornivano i soldati per respingere i francesi (1793) speravano di ricevere un po' di gratitudine dal loro sovrano. Invece, venne l’anno dell’acchiappare (sa ciappa) “dell’acciappare” , rimasto memorabile nella memoria popolare.
Il 28 aprile 1794 i Cagliaritani andarono alla ricerca dei piemontesi (acciappai is piemontesus) presenti in città per cacciarli via. Fu considerata una vera sommossa popolare, molto civile, anche se i sardi, e in particolare i Cagliaritani, non ne potevano più della presenza dei piemontesi, impiegati di alto grado che usurpavano il lavoro e quindi il pane dei sardi.
Il clero era piuttosto numeroso in rapporto alla popolazione. Oltre ai ministri della Chiesa, c’erano numerosi ordini monastici: Domenicani, Cappuccini, Gesuiti, Mercedari, Trinitari (quelli più diffusi) e Scolopi. Tra questi ultimi, vale la pena di ricordare Padre Giambattista Vassallo dell’Ordine degli scolopi arrivati in Sardegna verso la metà del 1600: un Gesuita che si è impegnato col suo apostolato per oltre quarant’anni.
LA GROTTA DELLA VIPERA
IN UNA CAGLIARI FELICE E SOLARE
di Ennio Porceddu
(27-12-2022 / 18-12-2020) Sfogliando alcune riviste degli anni ’70 ho trovato un articolo che parla della Grotta della vipera (foto dal web/Social) e dei versi grafiti sulla pietra. L’articolo lo trovato su TERZA PAGINA cartaceo (anno 1 N° 1 - 1977) intitolato “Cagliari : una città solare” di I. De Magistris. (Tenditum per longum Karalis). Vale a dire: Si passa attraverso una lunga Karalis. Parlando di una cosa che a noi cagliaritani ci appartiene, ne voglio riproporre alcuni passaggi.“Credo che non ci sia un cagliaritano che abbia un minimo di istruzione - scrive De Magistris - il quale facendo sfoggio di erudizione dovendo dare una qualche indicazione generale sulla città , non sappia citare il verso Tenditum per longum Karalis!”“Sono altrettanto sicuro che siano pochi i cagliaritani che sanno che la loro città è custode di alcuni versi grafiti sulla pietra nella Grotta della vipera. Sono versi – continua De Magistris che danno dignità poetica a un autore. Purtroppo scrive “ il poeta di lingua greca della Grotta è ignoto e che costituisce titolo di ammissione alla patria delle letture per la città che li conserva”.“A godimento di quanti non conoscono questi versi, li riporto nella traduzione italiana che esclude – chiarisce, non è mia altrimenti sarei un poeta. Ecco il primo verso: Dalle tue ceneri O Pontilla germogliano viole e gigli e possa tu cosi rifiorire nei petali delle rose” (Nec violae semper nec germinabit virga lilia ex favilla et tu Domine Pontilla revirida in petalis de rosis).“Purtroppo però, mentre è innegabilmente poeta chi ha scritto questi versi, si è dimostrato poco profeta. Infatti, i cagliaritani di tutti i secoli che sono seguiti non hanno eccelso nelle letture e nemmeno in poesia , tanto in lingua quanto in dialetto. Dicendo questo - aggiunge l’autore- non voglio essere ipercritico, ma intendo semplicemente affermare che, aimè, anche se qualcuno in questi ultimi due secoli emerso un poco, nessuno ha mai eccelso.
Quando ha scritto quest’articolo, il De Magistris aveva un problema che è oggi attuale: La città era piovosa. “Una città maledettamente piovosa”. Anzi, per meglio dire; un inverno maledettamente piovoso. Poi si tranquillizza affermando che la meteorologia di lì a poco lo conforterà un bel sole splendente di gennaio e febbraio e con l’azzurro del cielo. De Magistris in quel momento deve ritenersi fortunato: c’era la pioggia ma non c’era la pandemia.
La Grotta della Vipera" è situata nel Viale S. Avendrace. Il nome "Grotta della Vipera", deriva dalla presenza sul frontone di due serpenti scolpiti affrontati, il cui significato è stato variamente interpretato dagli studiosi: secondo alcuni, essi rappresenterebbero le figure divine di Isis e Osiris. secondo altri, si tratterebbe invece della rappresentazione simbolica di Lucio Cassio Filippo e di Atilia Pomptilla e, al contempo, della fedeltà coniugale, oltre che un monito ai passanti per il rispetto del luogo funebre. In realtà è un ipogeo funerario (ossia una catacomba scavata nella roccia). Cioè, un mausoleo familiare della nobildonna romana Atilia Pomptilla e del marito Lucio Cassio Filippo. Quest'ultimo, si volle affermare che era parente dell'anziano giurista Gaio Cassio Longino, esiliato in Sardegna dall'imperatore Nerone nel 65 d.C. Anche Lucio Cassio Filippo e la consorte Atilia Pomptilla erano stati condannati all'esilio nell'isola.
La facciata, della Grotta scavata nella roccia, riproduce quella di un tempietto in stile ionico composito di Cagliari, dove secondo gli amanti della città il cielo è più azzurro e fa manto allo scenario lontano dei monti dei sette Fratelli e di Serpeddi da un lato e dai monti di Capoterra dall’altro e alla distesa del Campidano, al luccichio dello Stagno di Santa Gilla, Molentargiu e al Golfo che i geologi chiamano Golfo degli Angeli. All'interno, il mausoleo è suddiviso in tre ambienti: un vestibolo, una prima camera funeraria, una seconda camera funeraria. Nel mausoleo risultano praticati sia il rito funerario dell'inumazione sia quello dell'incinerazione.
(Alcuni note sono da Google, altre da Terzapagina anno 1 numero 1 - 1977)
FESTE CIVILI E RELIGIOSE
IN SARDEGNA
LA FESTA DI SANT’ANTIOCO A
CAGLIARI NEL 1600 ERA UNA REALTA’
di Ennio Porceddu
(1-11-2022 / 20-10-2020) Generalmente le principali sagre in Sardegna, nei libri sono descritte seguendo un ordine temporale legato all’avvicendarsi delle stagioni e dei mesi dell’anno. In questi libri mancano alcuni riferimenti Essi scandiscono la vita delle collettività isolane attraverso un calendario che non necessariamente ricalca quello liturgico cristiano o l’anno della loro nascita. Nel compendio di leggi, decreti e ordinanze “Leyes y pragmáticas” del ricercatore sassarese F. Angelo Vico e edita a Napoli nel 1640, si attesta che “nella Cagliari del primo Seicento, la vita sociale e collettiva era giunta a un certo grado di organizzazione e di perfezione e le festività religiose e civili erano molteplici”. Ad affermarlo c’è anche Joaquín Arce, autore di molti lavori tra cui “La Spagna in Sardegna” (Madrid 1960 e Cagliari 1982), dove si legge che, “senza contare le domeniche, le feste di Natale e di Pasqua e le altre feste mobili, erano ben settantaquattro le festività infrasettimanali”. In pratica dice che i sardi, in quei giorni, onoravano i patroni dei gremi e delle confraternite e i santi ai quali si rivolgevano per chiedere di preservarli dalle malattie e dalle lunghe carestie. Molte feste sono scomparse e non restano tracce. Altre si sono estinte molti anni fa, altri ancora, addirittura due secoli fa, come la sagra di S. Antioco (foto dal web/Social) che si svolgeva a Cagliari, il 5 maggio, nella collina di Bonaria, a cui partecipavano i contadini con le traccas, provenienti da diverse parti del Campidano. Ne abbiamo notizia dal Fuos, un cappellano militare , che percorse la Sardegna negli anni Settanta del secolo XVIII e ci lasciò un’interessante descrizione nel testo «La Sardegna nel 1773-1776 descritta da un contemporaneo”. Joseph Fuos, pastore luterano cappellano militare e memorialista dell’ Isola sabauda settecentesca, riferisce che la sagra di S. Antioco era, con quella di Sant’Efisio, la più rilevante in tutto l’anno e aveva carattere spiccatamente rurale. La descrizione che fa il Fuos sulle traccas, che intervenivano a decine alla sagra, è interessantissima. Lo cita anche F. Alziator nel libro «La città del sole». L'attribuzione a Joseph Fuos è che l'autore anonimo del libro con questo titolo, apparso a Lipsia nel 1780 in forma di una raccolta di tredici lettere destinate a un anonimo barone del Baden, è stato in Sardegna, a Cagliari, negli anni dal 1773 al 1777, in qualità di cappellano militare, probabilmente del reggimento di svizzeri Royal Allemand allora di guarnigione a Cagliari al servizio del Re di Sardegna. La notorietà dell'opera e del suo probabile autore si deve alla tarda edizione italiana dell'avvocato cagliaritano Pasquale Gastaldi Millelire nel 1899. Parecchi dei successivi viaggiatori e memorialisti in Sardegna hanno attinto liberamente a questo suo testo, specie dopo la traduzione italiana e in particolare per quanto riguarda le usanze locali e i giudizi sul carattere e sul modo di vivere dei sardi di quei tempi e nel passato.
EFISIO, IL SANTO DI TUTTI I SARDI
IL PRIMO MAGGIO TORNA LA 366^ SAGRA DEL MARTIRE SANT'EFISIO
di Ennio Porceddu
(1-5-2022) - FOTO DI AUGUSTO MACCIONI - Quando al giovane Efisio di Elia, originario della Siria fu investito del grado di capitano dell'esercito di Diocleziano, non avrebbe mai immaginato che questo lo avrebbe portato a perseguitare i cristiani e ad imbarcarsi per l'isola di Sardegna dove si sarebbe convertito al cristianesimo e incontrato, poi, i più duri tormenti della sua vita presso Nora (Pula) il 15 gennaio 286, e la felicità eterna che lo ha innalzato tra gli eletti al cospetto di Dio.Efisio non avrebbe mai immaginato, di diventare il santo di tutti i sardi: un santo martire che fa parte di noi stessi, perché è un eroe della fede cristiana a cui siamo magicamente attratti e devoti da 366 anni e che, come afferma qualcuno, ormai conserviamo nel nostro dna.
Efisio è il santo alla quale non possiamo farne a meno. Il nostro santo è anche spiritualità e devozione per chi in momenti difficili della nostra esistenza si è prodigato per salvarci quando la municipalità di Castrum Caller l'aveva invocato perché intercedesse per salvare la città dalla "febbre pertilenziale" che assediava la popolazione in una morsa senza scampo. Il 4 marzo del 1656 si riunì il Consiglio Generale per affidare ancora una volta la salvezza della città al santo. Cosa che avvenne, non solo per Cagliari ma per tutte le città e i paesi della Sardegna.Sant'Efisio intervenne per la seconda volta quando nel 1793 i francesi cercarono di impadronirsi di Cagliari, facendo naufragare, come un autentico tsunami, le loro navi.La terza volta è quando Cagliari sotto i bombardamenti, che dopo tanto dolore e disperazione, fece germogliare il seme della speranza, nella via della speranza e della rinascita.Tre momenti che Cagliari non può scordare, come Efisio non ha mai dimenticato quando a Vrittarnia, una notte udì un rumore terrificante che lo tramortì, assieme ai suoi soldati e poi vide fra le nuvole una scintillante croce e una voce che lo chiamava alla verità: "Oh Efisio donde vieni e donde vai?". Quando Efisio si presenta, la voce gli dice: "Oh Efisio, anche tu verrai a me per mezzo della palma del martirio". Efisio alla voce venuta dal cielo gli chiede: "Chi sei che mi parli in questo modo ?". " Io sono colui che tu perseguiti figlio di Dio Vivo".
A quel punto una croce luminosa s'imprime nel palmo della mano in segno di beatificazione al Signore Dio.Da allora, Sant'Efisio ritorna tutti gli anni, anzi diciamo, senza ombra di smentita, che è sempre con noi, ma è emozionante vederlo sfilare tra le ali di folla trascorrere momenti di felicità con la gente che lo ama e che lo porta nel luogo del suo martirio ogni primo maggio da 366 anni.Molti scettici, dicono che Efisio è un santo mai esistito che e appartiene alla fantasia popolare, ma i sardi e i cagliaritani non sono d'accordo e continuano con grande fede e devozione ad amare il loro santo, ora è sempre.Mentre per gli italiani il primo maggio è la festa del lavoro a Cagliari, questo giorno, una moltitudine di credenti (e di giovani laureati non occupati nella speranza che Sant’Efisio faccia il quarto miracolo per loro), accompagna in preghiera il cocchio dorato del santo muovendosi dal centro di Cagliari verso la località di Nora, dove fu decapitato, per rientrare, come sempre, in città il 4 maggio a tarda sera. Anche con il tempo incerto, i fedeli e i turisti arrivano da tutte le parti del mondo per assistere alla più importante festa religiosa e di popolo della Sardegna e del Mediterraneo.
Il corteo parte dalla chiesetta Sant'Efisio di Stampace alle 12,00 e si snoda nelle vie principali del centro di Cagliari scortando il simulacro del santo. Forse per quanto riguarda il percorso ci saranno dei problemi, salvo che, il sindaco non ripulisca Corso Vittorio Emanuele dal cantiere che ora lo occupa.Le traccas, migliaia di costumi sardi, i cavalieri e i miliziani, la Guardiania e l’Alternos fanno da cornice alla grande sagra del santo protettore della città di Cagliari. La sagra di Sant’Efisio (sant’Efis per i sardi), è la più amata, la più festeggiata, la più ricordata. E’ da oltre tre secoli e mezzo che si continua a parlare di questo Santo che è rimasto nei cuori e nelle menti dei sardi e dei cagliaritani in modo particolare e per così tempo si continua, ogni primo maggio, a ricordare le sue prodigiose imprese e ad amarlo e venerarlo per le cose che ha fatto per la sua città. Cagliari, in ginocchio per confermare un grazie tangibile.
UNA NUOVA TERAPIA MINI INVASIVA PRESSO
L’OSPEDALE BINAGHI DI CAGLIARI
LA SCRAMBLER THERAPY: GLI ELETTRODI
CHE SPENGONO IL DOLORE CRONICO
di Ennio Porceddu
(19-4-2022) Il dolore è un segnale di pericolo in grado di avvertire il cervello in caso di problemi. Ci sono diversi tipi di dolore: il dolore cronico, conosciuto anche come dolore neuropatico, compare a seguito di un deterioramento o una malformazione dei nervi del sistema nervoso periferico o delle strutture del sistema nervoso centrale. Le cause di questa condizione sono numerose. Tra queste, rientrano la compressione nervosa, alcune malattie infettive, Herpes Zoster, il diabete e la sclerosi multipla.. Oggi il dolore si può combattere. La terapia iniziale, basata sul trattamento dei fattori scatenanti e sulla cura dei sintomi, oggi può essere sostituita dalla Scrambler Therapy: una novità importante che combatte il dolore cronico neuropatico. In pratica ci sono degli elettrodi che sopprimono il dolore cronico in grado di ingannare il cervello e trasmettere un’informazione di non dolore. Questa tecnica di terapia mini invasiva, delinea una nuova opportunità per bloccare il dolore cronico e quello oncologico. La sperimentazione è attuata da due terapisti del dolore presso il SSD Terapia del Dolore dell’Ospedale Binaghi di Cagliari, Il Dott. Tomaso Cocco (foto dal web/Social) e dalla D.ssa Laura Fei. Con lo Scrambler Therapy (foto dal web/Social), l’ efficacia analgesico e tempestivo. Nel momento che sono sistemati gli elettrodi, il dolore viene meno. Com’è spiegato dai medici che applicano questa terapia. La ripetizione con un ciclo completo di dieci sedute “può rimodellare a sua volta questi circuiti sensoriali alterati, permettendo di ridurre l’iper-sensibilità al dolore”. Una bella conquista per la medicina del dolore e naturalmente per i pazienti che soffrono qualunque sensazione di sofferenza provocata da un male fisico.
Alta circa 120 centimetri, la scultura è sistemata in piazza Matteotti e ritrae il Maestro a mezzo busto
LA SCULTURA DI GIUSEPPE
VERDI A CAGLIARI
di Ennio Porceddu
(6-1-2022 / 20-7-2020) Enrico Costa, storico e scrittore del XIX secolo definì “la città di Cagliari “monarchica, bigotta, festaiola in cerimonie e larga in cortesia nel mar si specchia e si fa civettuola tra i rigattieri e l’aristocrazia”, ma era anche una città di grande sviluppo e percorsa da forti tensioni sociali. Dotata di spiccata sensibilità e d’indubbia cultura musicale, essa fu profondamente colpita dalla scomparsa del grande compositore Giuseppe Verdi(foto dal web/Social). Prese allora corpo, tra alcuni cittadini, l'idea di finanziare un'opera che ne celebrasse la figura e l'arte. C’è da dire che Cagliari non ha tante statue e busti ottocenteschi nelle sue piazze. A parte la statua di Carlo Felice, con il braccio rivolto verso via Manno, anziché Corso Vittorio. Quando i Piemontesi migliorarono la città dal punto di vista urbanistico, demolirono in parte la logica architettonica e urbanistica medievale, applicando le elaborazioni stilistiche francesi, non ebbero la capacità di abbellire le tanto piazze e luoghi della città perché le finanze come sempre erano insufficienti. Nel periodo sabaudo e più avanti durante il Regno d’Italia, qualche statua fu allestita. Famosa e discussa (tuttora) quella di Carlo Felice in piazza Yenne, meno famosi (e più bistrattati) i busti di Verdi, Bovio, Dante e Bruno. Il 27 gennaio dell’1901 Cagliari fu colpita dalla morte di Verdi: a tal punto che un gruppo di cittadini finanziò la costruzione di un’opera per celebrarlo. Nella redazione dell'Unione Sarda arrivata la notizia, dal direttore Marcello Vinelli. Parte l'idea di dedicare al compositore toscano un monumento. Fu interpellato Giuseppe Boero stampacino, classe 1876, mano d'oro, mente arguta, e il genio di chi l'arte ce l'ha nelle vene. Il busto Giuseppe Verdi, alto circa 120 centimetri, fu collocato in piazza Matteotti. La scultura lavorata alla forgia, ritrae il Maestro a mezzo busto, austero e pensoso nel volto, incorniciato dall'inconfondibile barba e da un cappello a tese larghe. Collocata su un alto e sobrio pilastro in pietra di Serrenti, recante semplicemente le scritte "Verdi" e "1911", la figura è adornata da una lira e da rami di quercia e alloro, simboleggianti rispettivamente l'arte della Musica e la straordinaria perizia dell'autore di composizioni ineguagliabili quali l'Aida ed il Nabucco. L’unico neo che ne dequalifica la statua del maestro Verdi, la data di morte: Il compositore emiliano è morto nel 1901. Due appunti: nel 1943 durante i bombardamenti il pilastro e la data della morte furono in parte rovinati. Il restauro fece danni anche peggiori: al posto della vecchia data, venne sistemata in modo grossolano e superficiale una data sbagliata: 1911. Quella data è ancora lì. Secondo appunto: il busto si trova in piazza Matteotti, la porta della città, da sempre degradata e ora finalmente, in fase di restauro. Speriamo che assieme al risanamento della piazza si “restauri” anche la data della morte del grande compositore.
UNA STORIA DI CAGLIARI
DA NON DIMENTICARE
di Ennio Porceddu
(2-12-2021) Quando il 1 settembre 1939 Hitler attacca la Polonia, ha inizio la seconda guerra mondiale. Due giorni dopo, la Francia e l’Inghilterra dichiarano guerra alla Germania. Tuttavia già nel 1936, nel mondo c’era il sentore che il conflitto si sarebbe scatenato, per questo Cagliari sotto un’apparenza di normalità, già da quell’anno progettava di realizzare i primi rifugi antiaerei, Furono stilati gli elenchi di tutti quegli edifici che dovevano essere muniti di uno speciale contrassegno visibile dall’alto e si equipaggiarono le scuole. Con l’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940) le misure precauzionali diventarono stringenti necessità: già dal 16 giugno aerei francesi partiti dall’Algeria bombardarono Elmas a Cagliari (foto dal web/Social). I primi danni furono nella Marina e nel quartiere di Bonaria. Nonostante questo, la vita della città continuò quasi indisturbata, almeno fino al mese di giugno 1942, quando la città subì incursioni più frequenti e più distruttive. Le bombe caddero a Su Siccu e sul cimitero di Bonaria e di conseguenza provocò le prime vittime. Intanto la città di Cagliari rafforzava i rifugi antiaerei, In questo clima la guerra penetrò piano, piano nella vita quotidiana, e anche, com’è ricordato da una nota comunale, anche in quella dei bambini. I bombardamenti dei mesi di febbraio - maggio 1943 si raggiunse il culmine della distruzione, infatti, dopo la ritirata delle truppe dell’Asse nord dell’Africa, Cagliari entrò nel raggio d’azione dei bombardamenti americani di stanza in Tunisia e Algeria. Nel mese di febbraio si succedono ben tre bombardamenti: il primo il 17 febbraio che provoca molto panico; il secondo del 26 colpisce il Municipio, il mercato e alcune navi nel porto. Il 28 febbraio i bombardamenti colgono i cittadini impreparati, tanto che non si ha il tempo di suonare l’allarme. Sono colpiti oltre i bersagli militari, scuole, chiese piazze e civili abitazioni. Intanto la Croce Rossa, dislocata in viale Merello, inviava giornalmente dei militare a soccorrere i feriti. Uno della squadra che tutti giorni rischiavano la vita tra le macerie con le barelle, era il militare Efisio Porceddu. Mio padre. (Vedi foto).
Dopo un mese di pausa i bombardamenti riprendono tra maggio e luglio completando la distruzione della città e del porto. A questo punto fu impartito l’ordine di sfollamento obbligatorio. Molti si ripararono nei rifugi antiaerei, altri sfollati si rifugiarono nei paesi dell’entroterra. I cittadini, gli amministratori comunali, statali civili e militari lasciarono la città e le scuole furono chiuse. Nella città semideserta e silenziosa accaddero episodi di sciacallaggio sia a danno dei privati sia delle istituzioni, tra le quali lo stesso comune di Cagliari. La popolazione, nonostante abbia perso tutto, ha cercato di sopravvivere lontano dalla città. Infatti, molti trovarono rifugio presso parenti e amici, Mentre chi non ha nessuno era costretto a chiedere ospitalità in paesi sconosciuti, confidando nella solidarietà altrui. Nonostante il dolore e la disperazione per le perdute subite era forte la voglia di continuare a vivere e in questo clima nascevano fratellanze e fiorirono nuovi legami e amicizie che durarono tutta la vita. Finita la guerra, al rientro dallo sfollamento, moltissime famiglie che avevano perso tutto furono sistemate, provvisoriamente si diceva, nei capannoni militari di via Is Mirrionis, dove fino a poco tempo c’erano i soldati richiamati. Questi capannoni divennero reparti di degenza per il nuovo Ospedale SS. Trinità. La sopravvivenza di queste famiglie in questi capannoni è stata per tantissimi anni da “terzo mondo”. Finché il comune non decise a costruire palazzine popolari. Il 19 maggio 1950 il Presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi concesse la Medaglia d’Oro al valore militare alla città.
SANTA LUCIA E I SUOI SEGRETI: LA PIÙ ANTICA CHIESA DI CAGLIARI ENTRO LE MURA DE LAPOLA
di Ennio Porceddu
(21-11-2021) Battezzata nell’anno 1119 col nome di Santa Lucia di Civita simultaneamente alla scomparsa chiesa di San Salvatore, nata cento anni prima dell’istituzione del Castello pisano in quello che era la borgata del porto dei mercanti di Cagliari, una volta detto Bagnaria. La chiesa fu ceduta quell’anno ai monaci Vittorini, stabilitisi nella chiesa di San Saturno. Santa Lucia è l’unico tempio cristiano del quartiere della Lapola che fu visitata nel 1263 dall’arcivescovo di Pisa Federico Visconti. La chiesa “beate Sante Lucie de La Pula Castelli Castri” nel 1338 apparteneva ancora ai monaci Vittorini di San Saturno ed era provvista di arredi, di altari e di una piccola campana. Di quel secolo non si è a conoscenza né della struttura esatta né il tipo di allestimento, nonostante vi siano forti probabilità che i suoi resti siano sullo stesso sito ora oggetto di ricerca. I resti del tempio, ridotto alle cappelle di destra e a parte del presbiterio, sono datati ai primi anni del Seicento. Gli ambienti architettonici trovati appartengono alla fase del restauro promosso tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. La chiesa diventò la sede dell’archiconfraternitat y compañya del la Sanch de Jesu Crist, ditta dels Vermills, de la present ciutat de Caller, approvata da una bolla papale del 1606. Comunque c’è da rilevare che alcuni anni prima i confratelli avevano favorito il ripristino di un precedente impianto secondo le linee architettoniche indicate della Controriforma, poi adoperate in alcune chiese della città tra le quali Santa Restituta e quella di Santa Caterina. La chiesa di Santa Lucia era l’unica a magnificare una tettoia del presbiterio con cupola su cornice dentellata d’ispirazione rinascimentale. Lo schizzo planimetrico contemplava un presbiterio quadrato, due sacrestie a esso affiancate, tre cappelle per lato aperte con archi, volta a botte sull’aula, due altri ambienti di dimensione molto ridotta sulla prima campata di cui uno a uso di campanile. Dionigi Scano nel 1861 riferiva di una navata con sei cappelle, e cupolino. La chiesa fu solo lievemente danneggiata dai bombardamenti del 1943. La demolizione fu sollecitata per ottenere un finanziamento nazionale dedicato alle ricostruzioni di chiese parrocchiali distrutte dagli eventi bellici. Il Piano di Ricostruzione, che riprendeva le linee del Piano regolatore del 1858 redatto dall’architetto Gaetano Cima, prevedeva la realizzazione di un viale in luogo della via Sardegna (Foto dal web/Social).
CAGLIARI, LA STORIA DELLA CHIESA
"SAN NICOLO' DEI NAPOLETANI"
DEL XVII SECOLO, DEMOLITA NEL 1869
di Ennio Porceddu
(27-9-2021) La chiesa San Nicolò di Bari dei Napoletani, molto probabilmente eretta alla fine del XVII secolo, sorgeva in un’area situata all’angolo tra le attuali, piazza di Carmine e via Sassari (una volta via S. Nicolò), nel quartiere Stampace. Fu demolita nel 1869. Si trovava esattamente davanti all’attuale Hotel Flora, a destra del Palazzo delle Poste in Piazza del Carmine (foto dal web/Social). Le suppellettili, gli argenti le statue e i dipinti furono sistemati nella chiesa di Sant’Anna. La chiesa fu fondata per volere del Principe Don Nicola Pignatelli Aragon, nominato viceré di Sardegna nel 1686. Esiste una leggenda che narra che il Principe Don Nicola mentre era a bordo di una nave con tutta la famiglia, si scatenò una tempesta che non prometteva nulla di buono. Avendo paura per la propria vita e per quella dei familiari, fece voto di innalzare una chiesa a San Nicolò di Bari nella prima terra dove fosse approdato sano e salvo. La nave si riparò nel porto di Cagliari scampando al pericolo e così Don Pignatelli mantenne la promessa, facendo edificare la chiesa che intitolò a San Nicola di Bari, affidandola alla congregazione dei Napoletani presenti a Cagliari. La congregazione si sciolse in seguito. La statua di San Nicolò si trova attualmente nella chiesa di Sant’Anna, come una lampada che riporta lo stemma del Principe Pignatelli. Lo stemma che si trovava nella facciata della chiesa è conservato nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari. Nella “Guida della città e dintorni di Cagliari”. Cagliari, Tipografia Timon, 1861, il canonico Giovanni Spano parla della chiesa e di com’era strutturata all’interno. Mentre scrive che all’esterno della chiesa c’era un grande stemma per ricordare il suo fondatore. E’ un documento, molto importante per capire la città di Cagliari di una volta. “Attraversata la piazza, a man sinistra si trova la chiesa di San Nicolò di Bari, chiesa nazionale dei Napoletani. Nella facciata vi è lo stemma, molto grande, del principe Pignatelli il quale ne fu il fondatore. Si racconta che questo principe trovandosi in mare con tutta la sua famiglia, ed essendo sorta una forte burrasca, fece voto di edificare una chiesa a questo Santo nella prima terra dove salvo sarebbe approdato. Essendosi la nave rifugiata nel golfo di Cagliari, fece tosto eseguire una chiesa che diede ad uffiziare ai Napoletani, i quali vi avevano una congregazione che poi si sciolse. Aveva un buon reddito che ora è ridotto a pochi censi, ed agli affitti di alcune case fabbricate attorno alla stessa chiesa. È uffiziata in tutte le domeniche, e nelle feste principali. La chiesa è di una navata, e di belle proporzioni con sei cappelle. La prima a sinistra entrando è dedicata a Santa Irene che hanno in devozione i Vasellaj, i quali ne facevano la festa. Il quadro è ordinario, opera del Massa. La bella statua di legno della stessa Santa nella cappella di mezzo a destra, è di Giov. Raim. Atzori. Così pure avvi un’altra statuetta di S. Greca di cattiva scoltura di Francesco Piras. Nella cappella di mezzo che segue vi è un gran quadro che rappresenta S. Nicolò con S. Gennaro pregando col popolo la Santa Vergine per difendere la città di Napoli ivi dipinta, sulla quale essa fa piovere denaro gettandolo colla man sinistra. Quando sarà accaduto questo miracolo? Il S. Gennaro ha una libro in mano su cui posano le ampolle del sangue miracoloso. Il dipinto ha qualche cosa di espressivo, ed è di pennello ignoto napoletano. L’altare maggiore, molto vasto, è di legno dorato. In mezzo vi è una nicchia dov’è collocata l’antica statua semicolossale del Santo. E’ una bella scultura napoletana d’incerto autore, ma pure è d’ammirare, sebbene sia stata restaurata. La prima cappella al lato dell’epistola è dedicata al crocifisso. Ha una tela antica di poco pregio: nelle basi delle colonne dell’altare vi sono dipinte le armi della città di Napoli con quelle del Console G. Battista Bono, a di cui spese forse sarà stato fatto l’altare. Ma la cappella che più merita attenzione è quella di San Michele, l’ultima vicino alla porta, per il quadro in tela di S. Michele. L’arcangelo, con belle mosse, sebbene abbia la gamba destra mal situata, percuote gli angeli ribelli che cadono con diverse movenze. Bella è la composizione, ed il colorito maggiormente; degna delle buone scuole napoletane del secolo XVIII. Sopra la tribuna finalmente avvi un bel quadro d’una Santa che sembra S. Giuliana, con diversi scompartimenti attorno e con iscrizioni: ma non si possono ben osservare per essere il quadro collocato troppo in alto”.
QUANDO IN SARDEGNA C’ERA LA PRESENZA TENEBROSA DE S’ACCABADORA
di Ennio Porceddu
(11-8-2021) Il personaggio dell’accabadora rappresenta uno delle immagini ambigue della sconfinata eredità culturale fatta di tradizioni popolari dell’Isola. Con tale finalità, originato probabilmente dalla lingua spagnola acabar (cioè finire), s’indica una donna solitamente di una certa età, ma raramente anche a una figura di sesso maschile, s’accabadore, alla quale era assegnato l’incarico di adoperarsi sui morenti, per porre fine al prolungarsi delle loro sofferenze. Nei giorni nostri si direbbe una vera propria eutanasia che appagava, da una parte, alla pietà per le sofferenze provate dai moribondi; dall’altra, a un criterio di usanze: nell’economia di sussistenza delle comunità rurali In pratica si pensava che le cure agli infermi senza possibilità di recupero della salute toglieva energie e tempo ad altre casi indispensabili, ponendo a repentaglio il fragile equilibrio delle famiglie di appartenenza dei malati. Di questo problema se n’è sempre molto discusso, ma la singolare miriade di documentazioni più o meno illustri, di memorie popolari, di riferimenti diretti in proverbi tradizionali, allontana pochi dubbi sulla attendibilità storica dell’accabadora, pur se risulta quanto mai difficile ricomporre un profilo approfondito, dato il tassativo riserbo dell’ufficio, a causa della contrarietà degli istituti civili e religiosi. Fu Alberto La Marmora il quale, nella prima edizione del suo Voyage en Sardaigne del 1826, che riferiva di questa pratica de accabadora diffusa nelle zone più conservatrici dell’isola fino alla prima metà del XVIII secolo. Ad avvalorare le parole del La Marmora, lo scrittore e viaggiatore inglese William Henry Smyth affermò che l’abbandono della pratica era stato dovuto all’opera missionaria del gesuita Giovanni Battista Vassallo, svolta tra il 1725 e il 1775. Le affermazioni dei due scrittori diedero il la a una polemica tra chi asseriva l’attendibilità storica di tali pratiche e chi le considerava narrazioni tradizionali popolari, tanto che il La Marmora, sentitosi tirato in causa, nella seconda edizione del suo Voyage del 1839, si dichiarava non all'altezza di scegliere se prestar fede o meno alle testimonianze raccolte. Nel 1833 Goffredo Casalis inserì il termine accabadora nel dizionario redatto da lui redatto. Mentre il religioso e uomo di cultura Vittorio Angius, difensore della veridicità storica, appoggiò la pratica dell’accabadora e asseriva attuato in Sardegna per mano dei figli, al compimento del settantesimo anno d’età dei genitori maschi. Questa pratica a sua volta, inserito in un abituale stato di ebbrezza attenuare la tensione drammatica del rito, fu messo in relazione con cosiddetto il Riso Sardonico.
C’è un episodio che narra Padre Bresciani, nel suo libro “Dei costumi dell’isola di Sardegna” (1850), di una donna che da giovane fu colpita da grave malattia, dopo aver ricevuto l’estrema unzione, quando vide s’accabadora fu presa dallo spavento che miracolosa guarì. Ovviamente Padre Bresciani può aver raccontato un fatto di pura invenzione che comunque nessuno studioso ha mai smentito. Durante i successivi decenni ci furono tante storie sull’accabadora e molto studiosi se ne occuparono, persino la chiesa cercò di trovare capire il problema. Si dice che nell’anno 1906 un prete fu testimone oculare di un fatto singolare: una vecchia dal brutto aspetto si avvicinò alla madre di un bimbo morente offrendosi come accabadora. La madre rifiutò, perché con la sofferenza il bambino si stava guadagnando il paradiso. Nella credenza popolare si pensava che l’agonia lunga e travagliata non fosse altro che una punizione per dei peccati commessi. Che peccati poteva avere quel bambino? Diverso per l’agro pastorale che potevano aver imbrogliato sui confini dei campi, in modo da impossessarsi di terreni d’altri, o l’aver buttato o bruciato un giogo per i buoi, azione che non andava fatta neanche quando l’arnese era divenuto inservibile, dato il suo carattere simbolico. Comunque in questo caso al moribondo era messo il giogo sotto la testa, nella convinzione che ciò ne affrettasse il decesso. La stanza doveva essere spogliata di tutto ciò che poteva aveva il compito di agevolare l’ammalato (amuleti, oggetti sacri) e di tutto ciò che egli aveva di più caro (affetti familiari, oggetti di valore materiale e sentimentale), in modo che la magia del rito non fosse ostacolata da tutto ciò che poteva tenere il morente legato alla vita terrena. Il La Marmora nel suo Voyage dice che l’atto vero e proprio dell’accabadora era messo in opera attraverso il soffocamento o in genere colpendo in un punto specifico il capo del moribondo con una specie di martello il legno di olivastro di cui è noto un unico esemplare, conservato nel Museo Etnografico di Luras. Per questo raccapricciante lavoro s’accabadora non riceveva compensi diretti una volta portato a termine il suo compito, si eclissava per evitare di incontrare i familiari del defunto. Vista la delicatezza del suo compito, l’accabadora spesso era richiesta da un paese vicino, in modo da evitare i coinvolgimenti dovuti all’appartenenza alla stessa comunità della famiglia del morto. La sua figura evocava timore e mistero: naturale che, almeno in tempi relativamente recenti, una volta indebolitasi la sua importanza all’interno della comunità, l’accabadora sia diventata oggetto di superstizione, spesso allargata a tutta la sua famiglia. L’origine della sua funzione era con ogni probabilità sacerdotale: lo conferma che, all’interno della comunità, le erano riconosciuti saperi e poteri, sia pratici sia trascendentali. Certamente più complicato teorizzare ipotesi sull’origine storica della figura dell’accabadora, anche lascia supporre a un’usanza arcaica che ha resistito anche alla cristianizzazione, almeno nelle zone interne e fino al Concilio di Trento. Questa pratica fu abolita ufficialmente nel XVIII secolo, ma protratta in modo clandestino fino al XX secolo e osteggiata dalla chiesa e dallo Stato in maniera non molto convinta, preferendo sopportare i sempre più rari casi come residui di un’arretratezza, anziché come un dannoso caso socievole. Su questa pratica qualcuno ci ha anche speculato scrivendo dei libri, che visto l’argomento, hanno avuto anche un certo successo.
ECCELLENTE INSEGNANTE E COMPOSITORE,
COLLABORO’ CON ARTISTI DEL CALIBRO DI MINA E CLAUDIO VILLA
AMARCORD DEL MAESTRO MADDALENINO NINO ABIS SCOMPARSO NEL 2015
di Ennio Porceddu
(4-8-2021) Lo avevo conosciuto nel lontano 1970. Per lui avevo composto diversi testi di canzoni (circa una quindicina), alcune in lingua spagnola. Nel 1972, l’edizione musicale Suono di Mestre/Venezia ci pubblicò la canzone “Senza fede”, in repertorio da alcuni complessi musicali (così si chiamavano allora i gruppi musicali) e programmata a Radio Sardegna. Poi fu la volta di “Mi ricordo bambino) incisa su dischi Galletti/Boston di Faenza nel 1972 dal gruppo quartese “La Nuova Era”, produttore chi scrive: canzone che ha fatto il giro del mondo con un ottimo successo ed è stata riproposta da diversi artisti internazionali nel 1982 e 1992 (Canada, Argentina).Poi, “Viva la Palma” (Porceddu – Abis) sigla ufficiale del Festival Nazionale dei bambini “La Palma D’Oro”, svoltosi a Cagliari negli anni 1975/1976 e organizzato sempre da chi scrive con la collaborazione di Antonio Linoti, noto manager e padre della cantante Silvana. La sigla del festival è incisa su disco LP dall’etichetta discografica Polimusic.I brani “Nostalgia di Napoli” e “ Na musica è l’ammore” (Edizioni musicali Galletti/Boston), hanno fatto parte dei Festival della Canzone Napoletana.Il caro amico Giovanni (Nino per gli amici)- foto dal web/Social- è morto nella sua abitazione di Via Cairoli a La Maddalena sabato 31 ottobre 2015 .Aveva 87 anni.Nella sua vita c’era tantissima musica nel sangue: Compositore di musica, autore di un sistema d’insegnamento all’uso della chitarra oggi comunemente usato.Durante gli anni della maturità artistica Abis, oltre ad occuparsi dell’insegnamento, era entrato in contatto anche con i più grandi cantanti della musica leggera italiana, come il Trio Lescano di cui aveva composto una canzone : La pensione do re mi , Mina, Claudio Villa e altri.Nino era molto conosciuto in Sardegna e in Corsica.A metà degli anni Settanta, con spirito antesignano, aveva organizzato una seguitissima radio locale, praticamente la prima della Gallura costiera, ‘Radio Maddalena’ e successivamente una tv privata, nei cui studi si sono fatti le ossa numerosi giornalisti isolani che oggi collaborano con le testate giornalistiche regionali e nazionali.Compositore, diplomato al Conservatorio di Sassari. Insegnante nominato per i corsi corali e Polifonici, dal Provveditore. Cattedra di Musica alle scuole medie, insegnante di pianoforte alle Magistrali. Eclettico e virtuoso suonatore di diversi strumenti musicali. Diplomato in armonia all’Accademia di Roma.Nato a La Maddalena, nel 1928, Giovanni Abis, ha composto oltre mille canzoni, diverse centinaia pubblicate dai più grandi editori e notissimi della Galleria Del Corso di Milano. Più di cento, pubblicate dalle Messaggerie Musicali e Sugar – Caselli.Ha inciso col suo gruppo musicale con la Bentler, Combo, Nuraghe, per la Philips francese, uno spot pubblicitario, e per la televisione francese ”Bonne nuit les petits”.Il famoso spot “Cin, Cin Cinzano”, e quello della lama Bolzano, sono stati composti dal maestro Abis.Nella rassegna annuale UNCLA-RAI (in anni diversi), i brani del compositore maddalenino, conquistano i primi posti: “Fogu” (1° classificato); “Curri Curri” (3° classificato); “Alta marea” (2° classificata). Altri, invece, hanno avuto degli ottimi nelle finalissime trasmesse in diretta da Radio-RAI. I brani succitati, sono al successo discografico da Vittorio Inzaina.Il maestro Abis, ha curato gli arrangiamenti di diversi brani registrati da Pino D’Olbia (al secolo Giuseppe Fadda).Su incarico della Bentler-Rampordi-Zig Zig-Guerrini di Milano, ha diretto l’orchestra napoletana durante l’esibizione del cantante Milk che interpretava una canzone del gruppo editoriale milanese. Al concorso nazionale “Tre canzoni da lanciare”, si sono classificate Al primo e secondo posto con i brani: “Addio signora” e “ Non t’ascoltai”.Giovanni Abis, non è solo un compositore, ma anche un talent scout. Diversi i giovani che l’Abis, ha preparato e presentato a manifestazioni importanti: Castrocaro, Città di Milano e Sanremo.Alla fine degli anni ’70, Giovanni Abis, ha lanciato livello nazionale gli “AXIS”, un gruppo maddalenino che aveva una certa notorietà nel nord della Sardegna, con l’aiuto dell’amico G. F. Reverberi. (direttore d’orchestra, produttore discografico e direttore della R.C.A.). Voglio ricordare che il maestro Reverberi ha lanciato tanti artisti, tra i quali i genovesi Lauzi, Tengo, De André, Paoli e New Trolls.I tre brani registrati dagli “AXIS” portano la firma del compositore maddalenino: The Lonely man, “I look in the round”, Don’t i game tomorrow”.Per dovere di cronaca riportiamo la formazione degli “AXIS”: Francesco (sax e voce), Paolo (Tastiere), Umberto (chitarra solista e basso), Santo (batteria).
LA LEGGENDA
DI DEDALO
di Ennio Porceddu
(27-7-2021) Scrive lo storico Alberto Caocci che “un’antica memoria racconta che Dedalo per sfuggire alla prigionia del re Minosse, re di Creta, si riparò prima in Sicilia e poi in Sardegna: Qui per ricompensare i sardi della generosa ospitalità, insegnò tra le altre cose a costruire i nuraghi” e poi annotta che la più grande civiltà isolana è quella, appunto dei nuraghi che si è sviluppata nell’età del bronzo fino all’età del ferro, comprendendo il periodo di tempo che va dal 1600 a. C. al periodo romano del 111 a. C.”. Ma torniamo indietro nel tempo, per dire che Dedalo era figlio di Metione, e originario di Atene, dov'era un apprezzato scultore. In seguito all'omicidio del suo assistente e nipote Calo, che avrebbe ucciso perché geloso della sua maestria, fu accolto a Creta dal re Minosse. Durante questo suo soggiorno al palazzo, lo scultore attirò il desiderio di una schiava del re di Creta, di nome Naucrate, la quale s'innamorò perdutamente della sua maestria e della sua bellezza. Dedalo si unì alla giovane, che gli diede un figlio, Icaro. Pasifae la moglie del re di Creta Minosse aveva fortemente desiderato accoppiarsi con il toro sacro inviato da Poseidone. Dedalo la accontentò, costruendo una mucca di legno nella quale la moglie del re Minosse, s’introdusse dentro il ventre e si accoppiò. Da questa inverosimile unione nacque il Minotauro, che fu rinchiuso per ordine di Minosse nel labirinto costruito da Dedalo. Una volta finita la sua opera, per castigare Dedalo per aver organizzato l’accoppiamento della moglie Pasifae con il toro, fu rinchiuso con il figlio Icaro nel labirinto. Allora Dedalo pensò di scappare e dispose delle piume di uccello in fila, partendo dalle più piccole alle più grandi, in modo che sembrassero sorte su un pendio. Poi al centro le fissò con fili di lino, alla base con cera, e dopo averle saldate insieme, le curvò leggermente, per imitare ali vere. Dedalo raccomandò al figlio Icaro di volare a mezz’altezza in modo che l'umidità non appesantisse le ali e che il sole non facesse sciogliere la cera. Durante il volo Icaro fu molto imprudente, si avvicinò troppo al sole e il calore fuse la cera, facendolo cadere in mare. Dedalo oltre che come architetto del famoso labirinto costruito a Creta per Minosse, del quale si attirò poi l'ira per aver aiutato Teseo nell'uccisione del Minotauro rinchiuso in quella trappola senza via d’uscita.. Fuggito insieme al figlio Icaro che poi morì in mare), volando con ali artificiali applicate al corpo con la cera, giunse in Italia; dappertutto perseguitato dal re cretese, trovò alfine rifugio presso il re siculo Cocalo, le cui figlie uccisero Minosse, restituendogli la libertà. A Dedalo è attribuita anche, tra l'altro, l'invenzione degli xoana (simulacri lignei delle divinità) e degli attrezzi di falegnameria. Al di là del mito la figura di Dedalo impersona l'espansione della cultura minoica nel Mediterraneo, l'influsso dell'arte cretese in Attica e la colonizzazione greca della Sicilia.
L’INVASIONE DELLE CAVALLETTE
NELL’ANNO 1652 IN SARDEGNA
S’annu de sa lagusta et
de sa pigotta manna
di Ennio Porceddu
(26-6-2021) In un capitolo del libro di Giorgio Aleo, si parla della pioggia di cavallette che infestò la Sardegna nell’anno 1652. “Siamo ai tempi calamitosi –scrive il cappuccino – morto il viceré D. Beltram de Guevara, Sua M. conferì la vice reggenza al conte de Lemos, grande di Spagna, personaggio di grande virtù, nel marzo di quell’anno piove un’infinita quantità di cavallette che il sole ne rimase oscurato”. Quegli insetti ( foto dal web/Social)venuti dall’Africa iniziarono dalla parte di mezzogiorno a tagliare e a rodere i seminati e quant’altro di verdeggiante trovò. Nei paesi coprivano letteralmente i campi; nelle città le vie. Dopo di aver distrutto ogni vegetale nelle pianure e nelle montagne di Pula, Chia, Teulada, Palmas, Sulcis e Iglesias, nelle ore calde del giorno prendevano il volo lento e ordinato come le mosse di squadroni bene istruiti, e invadevano le parti interne dell’isola. Il danno arrecato da questo insetto nei seminati, nelle vigne, negli alberi e nei frutti fu così grave da non potersi valutare. I sacerdoti lo scongiurarono, i devoti fecero processioni; la popolazione usciva dalle loro abitazioni per portarsi nei campi con scope e frasche per distruggerli; ma tutto fu vano, ed era evidente considerare quell’insetto un flagello. La cavalletta era così velenosa che, il poco fieno rimasto nei campi, dato poi a mangiare ai cavalli, buoi e altri animali, morirono tutti intossicati. Siccome per la medesima ragione, si beveva l’acqua dei pozzi, fu consigliato di chiuderli, dietro il parere dei medici, il viceré pubblicò per mezzo di un bando, che nessuno si arrischiasse di mangiar galline, uova e pesci, perché le galline ed i pesci ghiottamente divoravano cavallette. Distrutte le cavallette, nessuno sospettò che il maledetto e schifoso insetto avesse lasciato le sue uova sui campi e l’anno seguente, all’intiepidirsi della stagione, vero gli ultimi del mese di marzo, iniziò a pullulare e a uscire dalla terra, in maggior quantità dell’anno precedente. In pratica prima di gettarsi a morire nei fiumi e nel mare, aveva deposto le sue uova nei terreni incolti, per la conservazione della specie. Gli agricoltori consapevoli dalle esperienze passate, che le cavallette avevano lasciato le uova, venuto l’inverno, andavano a cercarle e a dissotterrarle con zappe e picconi. “E così fu - scrive ancora G. Aleo - appena nacque la cavalletta, le si appiccò una pestilente infezione, per cui le nasceva un piccolo verme nel collo e presto moriva. Resta ancora la tradizione in Sardegna di tanto flagello venuto insieme al contagio del vaiolo nell’anno 1629, che per essere stato terribile, specialmente in danno dei bambini, chiamano l’or detto anno nella loro lingua natia: “S’annu de sa lagusta et de sa pigotta manna”. Ancora nel ventunesimo secolo, le cavallette invadono molti campi coltivati dell’Isola e gli agricoltori devono combattere per distruggerle, prima che compromettano il raccolto. Insomma, la maledizione de sa lacusta continua.
CHI ERA GIORGIO ALEO?
Lo storico padre cappuccino Giorgio Aleo nato e battezzato a Cagliari col nome di Lussorio nel 1620; fece solenne professione della regola francescana presso i Cappuccini in Iglesias, nell’anno 1640, tra le mani del padre Illuminato, dove allora aveva il noviziato, cambiando il suo nome di Lussorio in quello di fra Giorgio da Cagliari. Giovane di versatile ingegno, compiti gli studi letterari e scientifici, nel quale notevolmente si distinse, rivolse il suo animo ad applicarsi a quello della storia patria che venne a formare tutta l’occupazione della sua laboriosa vita. Egli percorse in lungo e in largo tutta quanta l’isola, unendo il ministero apostolico alle indagini storiche, in quei difficili tempi, in cui le più enormi distanze dell’isola, per deficienza di strade e per francescano dovere, non poteva egli in altro modo superare, se non viaggiando a piedi. Ciò nonostante, lesse tutte le antiche iscrizioni scoperte fino al suo tempo; setacciò tutti gli archivi civili e vescovili, monastici e parrocchiali, tanto dell’isola come della Spagna; visitò, oltre gli esistenti, anche le rovine degli antichi tempi, monasteri, e le vetuste torri, baluardi e castelli, come chiaramente risulta dai suoi pregevoli scritti che attestano la sua prodigiosa operosità. Padre Aleo s’interessò anche delle lacuste, le cavallette che all’improvviso infestavano i campi coltivati e le città sarde scrivendo nel capitolo 32^ .
Sigismondo Arquer,
l’uomo che osò sfidare
l’Inquisizione
di Ennio Porceddu
(8-6-2021) Cagliari nel XVI secolo (foto dal web/Social) era in mano alla corruzione e al malaffare. Tra le mura di Castello e col bene placido della Chiesa e dentro le stanze dei palazzi nobiliari, si complottava nell’ombra. Era anche il tempo in cui sulla cittadella si allungava all’ombra la mano nera della Santa Inquisizione, spesso utilizzata per sostenere o ostacolare oscure convivenze di dominio. In questo clima di tumulti, incertezze e contrasti, numerosi furono i personaggi che si identificarono per tenacia e audacia, elaborando alcune tra le più belle ed avvincenti pagine della storia dell’Isola. Uno di questi personaggi fu il giovane cagliaritano Sigismondo Arquer, che passò secondo gli storici del tempo alla storia come il “Giordano Bruno sardo”. Nato a Cagliari nel 1530 da nobile famiglia Arquer, il padre Giovanni Antonio era consigliere del viceré Antonio de Cardona: quando quest'ultimo fu accusato di negromanzia, Giovanni Antonio Arquer fu coinvolto e arrestato dall'Inquisizione, poi assolto. Sigismondo studiò a Pisa e a Siena, dove conobbe Lelio Sozzini. Terminò gli studi nel 1547 con la doppia laurea in Diritto Canonico e Civile presso l’Università di Pisa e in Teologia a Siena. Poi rientrò in Sardegna, l'anno seguente, per sostenere la causa del padre che era finito invischiato in conflitti con la nobiltà locale, in particolare con la famiglia Aymerich.. Infine, intraprese un viaggio verso Bruxelles alla corte di Carlo V, presente in quel momento anche il principe Filippo. Durante il viaggio sostò in Svizzera: conobbe in particolare Celio Secondo Curione e Sebastian Münster, che lo invitò a collaborare alla sua Cosmographia universalis, uscita nel 1550, di cui l'Arquer curò la parte riguardante l’Isola scrivendo “Sardiniae Brevis Historiae et Descriptio” nella quale erano contenuti disegni e carte geografiche di Cagliari e della Sardegna, con riflessioni personali, statistiche, descrizioni e contenuti storiografici di vario genere. Questo lavoro fu molto apprezzato da Carlo V e da quel momento il giovane principe Filippo, lo assunse al suo servizio. Dopo aver seguito la corte imperiale ad Augusta, nel 1551 si trasferì in Spagna. Nel 1554 fu nominato consultore fiscale per la Sardegna. Oltre che a viaggiare e conoscere uomini di grande intelletto, la carica di avvocato fiscale lo portò Sigismondo Arquer a mettere le mani su quei loschi affari che già trent’anni prima avevano portato Giovanni Antonio a smascherare i membri più in vista dell’aristocrazia feudale sarda. Fu soprattutto Salvatore Aymerich a reggere le intricate fila del malaffare cagliaritano e a muovere la potente macchina dell’Inquisizione contro Sigismondo Arquer. In virtù della sua amicizia con l’inquisitore Andrea Sanna, nel 1558, Don Salvatore l’Aymerich, (lo stesso che anni dopo fu il mandante dell’omicidio di Gerolamo Selles, fratello del magistrato pubblico Bartolomeo, avversario della potentissima famiglia e a sua volta intimidito e oltraggiato per aver accusato i feudatari di speculazioni illecite sul grano), riuscì a far aprire un fascicolo contro l’Arquer, montando una serie di accuse per eresia. Anche l’amicizia con il Centellas – accusato di eresia e condannato alla pena del rogo a Valencia nel 1564 – sarà strumentalizzata nel processo che Sigismondo subirà più tardi, le quali, però, caddero proprio grazie alla difesa che quest’ultimo riuscì a prepararsi e portare in tribunale di Madrid davanti al re. Conscio che Cagliari non era più una città sicura per lui, nel 1560 Sigismondo ritornò in Spagna. Ma il suo destino sembrava ormai tracciato. Nel 1562 con l’arrivo dell’inquisitore Diego Calvo, temuto, feroce, corrotto e deciso ad andare fino in fondo alla questione per il nobile cagliaritano la situazione peggiorò. Trascorso poco meno di un anno, Sigismondo fu arrestato definitivamente con l’accusa di eresia a Toledo. Si diede inizio ad un processo lungo e doloroso durato oltre sette anni, durante la quali Sigismondo provò in tutti i modi a difendersi, dichiarandosi fino all’ultimo cattolico. Provò perfino a evadere, per poi essere catturato e nuovamente rinchiuso nelle carceri del Sant’Uffizio. Fu torturato due volte con l’obiettivo di estorcergli quella confessione necessaria per porre fine alla questione. Sigismondo doveva dichiararsi colpevole e firmare la sua abiura. Ma non poteva accettarlo. Dichiararsi colpevole avrebbe significato ammettere il falso e non poteva. Anche a costo della vita. Fu usato contro di lui anche un “pentito”, il francescano Arcangelo Bellit che dopo aver ammesso i propri delitti era stato condannato all’ergastolo per aver negato l’esistenza del purgatorio e la presenza di Cristo nell’ostia; diventato accusatore segreto di Arquer, ottenne la riduzione della pena a soli tre anni di carcere, poi mutati in una semplice nota di biasimo. Sigismondo, in quei momenti di grande sofferenza, iniziò a scrivere un memoriale difensivo in lingua castigliana, annotando i suoi appunti nel retro delle carte processuali nelle quali erano riportate le accuse contro di lui. Quelli che inizialmente erano semplici annotazioni, diventarono un componimento poetico che egli intitolò “Passion”, composto di 45 strofe e 10 versi ottosillabi con rima baciata e alternata. Eseguita la condanna a morte il 4 Giugno del 1571 a Toledo, fino alla fine, nonostante le fiamme avessero già cominciato a lambire il suo corpo, Sigismondo, urlava la sua innocenza. Dopo aver sopportato otto anni di carcerazione preventiva e la tortura, il giovane nobile cagliaritano non volle mentire per salvarsi e con grande coraggio dichiarò di preferire la morte.
RICORDIAMO UN'ALTRA VICENDA
TRISTE PER LA SARDEGNA
CORONAVIRUS,COME AI TEMPI
DEL COLERA:UNA PAGINA CUPA
DELLA STORIA DI CAGLIARI
di Ennio Porceddu
(5-6-2021 / 15-3-2020) La Sardegna, terra martoriata dalle innumerevoli dominazioni straniere, ha sofferto anche per le varie epidemie che l'hanno colpita nei secoli: peste, malaria, colera. Il colera ha fatto la sua ricomparsa nel 1973, dopo che si era manifestata prepotentemente in Campania. Napoli era la più colpita.A Cagliari(foto di Augusto Maccioni per Terza Pagina Ospedale Civile), l'epidemia colerica si era manifestata alle ore 23 del 31 agosto sempre del '73.Il primo paziente A. M. di 50 anni di Selargius. Erano 62 anni che a Cagliari non si parlava di colera. Nei giorni che seguirono, ci furono altri 12 casi, tutti a causa del ceppo El Tor Ogawa. Un paziente morì. Furono individuati anche sette familiari sintomatici con escrezione del vibrione cholerae. Dei 13 casi, il più giovane aveva solo 22 anni. Otto pazienti erano di sesso maschile. In tutti i 13 pazienti accertarono che la causa primaria erano le arselle crude ingerite pochi giorni prima ed provenivano tutte dallo stagno di S. Gilla. Nove ammalati erano soliti raccogliere i molluschi personalmente nella zona meridionale dello stagno dove c'erano vari sbocchi di fognature e da due canali che collegavano le acque salmastre dello stagno nei pressi del giacimento di molluschi e le acque del porto di Cagliari.Per l'Istituto Superiore di Sanità, sul banco degli imputati c'erano le arselle: "Sul piano epidemiologico è il risultato dall'esame dei 13 casi verificatisi a Cagliari, dove inoltre le arselle con il vibrione cholerae hanno presentato gli unici campioni di frutti di mare, colera positivi fra gli esemplari esaminati."Le arselle appartenevano al tipo Eulamellibranchi, appartenenti allo stesso ordine delle ostriche e delle vongole.Le persone colpite dal vibrione furono ricoverate al primo piano (appena ristrutturato) della Divisione Malattie Infettive dell'Ospedale SS. Trinità diretta dall'indimenticabile prof. Goffredo Angioni. Quella sezione improvvisata con lettini d'emergenza, rese possibile il ricovero di quanti presentavano una sintomatologia clinica sospetta di tale malattia, o di una presunta gastroenterite acuta, dopo ingestione di molluschi crudi. Alle notizie di quanto stava avvenendo nella regione Campania e in Puglia, Cagliari era letteralmente sotto choc: il colera incuteva paura.Ogni piccolo disturbo intestinale faceva presagire la possibile infezione. I vari pronto soccorso degli ospedali cittadini erano letteralmente intasati. Gli Infermieri e i medici della divisione di malattie Infettivi erano mobilitati e sottoposti ad un super lavoro, spesso per 16 ore al giorno, mentre un'equipe di volontari venivano messi in quarantena per poter prestare una assistenza continua (24 ore su 24) ai ricoverati che erano una ottantina. L'epidemia colerica colpì il quartiere Marina, San Michele (Via Podgora), S. Elia e Pirri.Le radio e la televisione nazionale invitavano i cittadini ad osservare la massima igiene. Il toccasana per tutti era "acqua e sapone", niente frutti di mare, e le verdure sempre ben lavate. Nello stagno di S. Gilla fu vietata la raccolta delle arselle, divieto che perdurò per moltissimi anni. Poi, finalmente, verso la metà d'ottobre, il colera fu debellato, per riapparire nel 1979.
ICHNUSA TERRA DI CONFINE
IL NUOVO LIBRO DI
ENNIO PORCEDDU
di Enrico Ricordi
( 21-6-2021) La Sardegna, sebbene non presenti molte meraviglie artistiche, è però impregnata di avvenimenti che ne ha fatta un’importante terra di conquista. Fermo restando lo scopo cui s’ispira il mio lavoro, ho voluto dare, in sostanza, un libro non pedagogico, parlando anche di alcuni fatti, ma con contenuti sintetici e di facile consultazione. “L’Importanza del recupero di una dimensione locale nello studio della storia – scrive Alberto Caocci – è ormai affermata dagli studiosi: Una chiesa, un castello, una lapide, le rovine di una città sono testimonianze che servono ad approfondire delle vicende storiche dei personaggi e delle tradizioni del territorio”. La storia vera della Sardegna è quando la leggenda narra di un’immigrazione di genti libiche il cui Sardus avrebbe imposto il nome all’isola, la quale il popolo Cartaginese usò per la prima volta le armi contro i sardi. Gli antichi ci hanno tramandato una grande immigrazione di popoli sardi o Shardana, abili navigatori di stirpe mediterranea. Certi studiosi hanno fatto risalire al XIV secolo av. Cr., associando che i Shardana si sarebbero sistemati lungo le coste ove avrebbero costruito le loro città. Non meno leggendaria appare la presenza di Iolao (secondo la narrazione di Diodoro, amico di Ercole. Sempre secondo Diodoro, I fenici, dopo essersi arricchiti con i loro traffici commerciali in Oriente, avrebbero fondato colonie in Africa, Sicilia e Sardegna. Dei Fenici resta un’epigrafe rinvenuta a Nora e fatta risalire al periodo IX secolo av. Cr. Non si è certi quando si stabilirono nell’isola. Sappiamo però, che contribuirono a incrementare l’attività della pesca, del sale, dell’estrazione del minerale dal sottosuolo, della coltivazione delle olive e delle palme. Parlo anche di Castello (Castrum Karalis), “cronaca di una domenica speciale” dove scrivo del teatro civico. Lo storico Giovanni Spano descrive che “ ha quattro ordini con 84 palchetti e il loggione; è ben decorato, e stuccato in oro. Vi si rappresenta l'opera in musica in due stagioni dell'autunno e del carnevale. Può contenere mille spettatori, compresa la platea…” Inoltre, tra le altre cose, tratto della chiesa di Santa Caterina e San Giorgio, distrutta dai bombardamenti del 1943. Poi c’è il mare di Chia, i giganti di Monte Prama, i falsi D’Arborea, l’Insurrezione sarda e tanto altro. Nella seconda parte parlo di alcuni personaggi, uomini e le donne di malaffare (descritti molto bene dal canonico Francesco Liperi - Tolu nel suo libro dedicato a Osilo nel 1913) o legati al banditismo sardo: una piaga che ci ha coinvolti anche per tutto il XX secolo.
ANCHE QUEST’ANNO A CAUSA DEL PERDURARE DELLA PANDEMIA COVID -19, I FEDELI POTRANNO SEGUIRE SANT’EFISIO NEL SUO PERCORSO DA CAGLIARI A NORA IN STREAMING
1° MAGGIO FESTA
DI SANT’EFISIO
di Ennio Porceddu
Mentre per gli italiani il primo maggio è la festa del lavoro (ormai raro per oltre il 40% dei giovani laureati e diplomati) Cagliari, questo giorno, da ormai 365 anni, festeggia Sant’Efisio (foto del 2019 di Augusto Maccioni) un appuntamento di fede che rende onore al Santo guerriero che da tutti i sardi è considerato il patrono che protesse la nostra terra della peste e dall’assalto dei francesi. Come l’anno scorso la sagra si svolgerà con un tono tranquillo e senza la marea dei fedeli a causa del perdurare della pandemia Covid-19. Insomma, la festa popolare che non si è fermata neppure durante i bombardamenti americani del II conflitto Mondiale che portò alla distruzione di un terzo della città di Cagliari, continuerà anche quest’anno, senza fedeli, da Cagliari a Nora, come è successo anche nel 1943, quando Efisineddu fu portato con il camioncino della ditta Gorini.Com’è stato confermato quindi, anche per quest’anno ci si atterra all’impianto della manifestazione della scorsa edizione, con il divieto di assembramenti e l’obbligo di distanziamento.
Perciò, le celebrazioni si terranno in un’unica giornata, quella del 1° maggio 2021 quando si svolgerà il rito dell’investitura dell’Alter Nos e avrà luogo la funzione religiosa. Confermato anche il pellegrinaggio del simulacro verso Nora a bordo di un mezzo scoperto, ma senza pubblico al seguito. Non ci sarà nessuna soste a Villa Ballero, Su Loi, Villa d’Orri, Sarroch e Settimo San Pietro. E il simulacro di Efis rientrerà la sera stessa a Cagliari, dove nella chiesetta di Sant’Efisio di Stampace sarà sciolto il voto.Tale decisione è stata decisa il 25 marzo 2021 – al termine dell’incontro del Comitato Provinciale Ordine e Sicurezza Pubblica, presieduta dal prefetto del capoluogo, Gianfranco Tomao, alla quale hanno preso parte oltre al Questore e ai Comandanti provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, l’Arcivescovo di Cagliari, i sindaci di Cagliari, Pula, Capoterra, Sarroch e Villa San Pietro, il Comandante della Regione militare autonoma della Sardegna, dei Vigili del Fuoco e della Capitaneria di Porto di Cagliari, e il presidente dell’Arciconfraternita di Sant’Efisio. Sicuramente i Cagliaritani, tutti i sardi e i continentali (com’è avvenuto l’anno scorso) potranno seguire il percorso, le cerimonie e i riti religioni in diretta streaming.
SARDEGNA, RICORDIAMO IL 28
APRILE 1794: L’INSURREZIONE
CHE MANDO’ A CASA I PIEMONTESI
“SA DIE SA SARDIGNIA”
di Ennio Porceddu
(21-4-2021) Duecentoventissette anni fa Cagliari fu protagonista di una sollevazione popolare. La prima che la storia ricordi per la città capitale della Sardegna. Era il 28 aprile 1794. Invece l’insurrezione esplose prima, cioè nel momento in cui i piemontesi arrestarono l’avvocato Vincenzo Cabras e il fratello Bernardo al posto di Efisio Pintor, che era riuscito a scappare. Ma, già iniziò un anno prima, nel 1793 quando i cagliaritani respinsero con grande determinazione le armate navali francesi. Sa die de sa Sardigna è la ricorrenza popolare che rievoca i cosiddetti “Vespri Sardi”, cioè l’insurrezione popolare del esplosa il giorno 28 aprile 1794 con il quale cacciarono da Cagliari i Piemontesi e il viceré Balbiano, in seguito al diniego del governo di Torino di esaudire le richieste che venivano dall’isola, titolare del Regno di Sardegna. In effetti, cosa chiedevano i sardi? Che fossero loro riservata una parte degli impieghi civili e militari e una maggiore indipendenza rispetto alle risoluzioni della classe dirigente locale. Al rifiuto del governo piemontese di accogliere qualsiasi petizione, la borghesia cagliaritana sorretta da tutta la popolazione, s’infiammò facendo nascere il moto insurrezionale. Le prime scintille della ribellione popolare iniziarono già negli anni Ottanta del Settecento ed erano continuate negli anni novanta, interessando poi tutta l’isola. Le ragioni del malcontento, erano di ordine politico ed economico insieme, da riallacciare al 1793, quando l’isola era stata implicata nella guerra della Francia rivoluzionaria contro stati europei e contro e il Piemonte. Così quando si parla di storia sarda, dobbiamo tener conto del biennio 1793/ 1794. I francesi, dopo aver, occuparono Nizza e Savoia, decisero di conquistare la Sardegna, consapevoli che conquistare l’isola fosse un’impresa facilissima. C’é da rammentare che la Sardegna in quel periodo era nel caos con gli isolani scontenti con un governo piemontese incapace di difendersi. Invece, accadde l’impensabile che i francesi non si aspettavano. Quando nel febbraio del 1793, la flotta, capeggiata dall’ammiraglio Truguet, si affacciò nella rada di Cagliari e iniziarono il cannoneggiamento, trovarono un’eroica opposizione dei Sardi, in difesa della loro terra. Con tale opposizione si manifestava un sentimento nazionale, che portò a scriverla nella sua autobiografia Vincenzo Sulis. Dopo aver evitato il pericolo dei francesi, I nobili sardi che avevano sollevato il popolo contro i francesi, giustamente, dai Piemontesi, si aspettavano una riconoscenza e una giusta gratificazione per la fedeltà manifestata alla corona. Le cose però andarono diversamente: tutte le richieste furono bocciate. “Mostrandosi il Ministro Granirei, contrario alle domande presentategli – scrive Pietro Meloni Satta – in nome degli Stamenti dai Deputati a ciò delegati, e accentuandosi sempre più la tracotanza, il contegno poco corretto, le satire e le insolenze continue dei Piemontesi contro gli Isolani, il malcontento assume proporzioni gravissime in tutta l’Isola, e specialmente nella capitale”. La fiamma che fece perdere il controllo ai cagliaritani fu (28 aprile 1794), l’arresto disposto dal viceré di due capi del partito patriottico, gli avvocati cagliaritani: Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor.
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In breve i fatti: Intorno all’una di pomeriggio di quel giorno, una Compagnia di granatieri del reggimento svizzero Schmidt, scende dalla Porta Reale, a Cagliari, avviandosi verso il quartiere di Stampace. I soldati sono in uniforme di parata: la gente che passa pensa di essere di fronte ad un’esercitazione. Poi con passo veloce, una parte dei soldati si schiera accerchiando l’abitazione dell’avvocato Vincenzo Cabras. Si predispone l’arresto del Cabras e del genero, Efisio Pintor, anche lui avvocato, considerati dalle Autorità Piemontesi due pericolosi rivoluzionari ma quest’ultimo riesce a scappare. Allora è arrestato il fratello Bernardo.“A questo punto – scrive Pietro Meloni Satta – scoppia l’insurrezione nel sobborgo di Stampace. Si corre in folla forzando e bruciando una porta della Marina, e occupansi in pochi istanti le altre porte, e le batterie che guardano il mare. Nasce un vivissimo fuoco colle truppe con morti e feriti da ambo le parti. Il più duro conflitto avviene alla porta del Castello, chiusa e ben munita, di dentro, dalle truppe. Quivi si riversa la popolazione chiedendo, con grida furibonde, la liberazione dei due arrestati. Si da fuoco alla porta e si scala la muraglia. Penetrati in Castello si sostiene, per un’ora, un fuoco vivissimo colla truppa, che occupava le diverse imboccature delle strade, e ciò malgrado le rimostranze del marchese di Laconi e del Colonnello Schmidt: il primo dei quali, colle lacrime agli occhi, esortava il Viceré a far deporre le armi per risparmiare il sangue cittadino”.
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La popolazione furibonda, decise di cacciare dalla città il viceré Balbiano e tutti i Piemontesi. Incoraggiati dalle vicende cagliaritane, gli abitanti di Alghero e Sassari fanno altrettanto.
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Per dovere di cronaca storica, occorre segnalare che furono i macellai, nei loro costumi tipici, i primi a sollevarsi contro i Piemontesi, con Ciccio Leccis in testa, il capo popolo che arringò la folla facendo scoppiare la rivolta. Gli insorti, conquistato il Castello, sfondano le porte e occupano palazzo Viceregio. Per prima cosa, allegoricamente, nel ricordare la molla che ha scatenato la sollevazione popolare e ad attestare un beffardo e tollerante spirito che sempre ha contraddistinto i cagliaritani, nel palazzo del vicerè è banchettato un ricco pasto di tutte le pietanze trovate nelle dispense, lasciate dai piemontesi.“Fuori i Piemontesi!” urlarono i popolani per le strade di Castello, gli insorti. Subito dopo Don Francesco Asquer, visconte di Flumini a capo di oltre cento persone, fa arrestare i Piemontesi presenti in Castello per imbarcarli verso Torino. In attesa del giorno dell’imbarco, previsto per il 7 maggio, i Piemontesi sono alloggiati e protetti per evitare possibili tafferugli. Il giorno stabilito, i Piemontesi, con le loro masserizie, sono accompagnati al porto e imbarcati. Al quel punto i cagliaritani incominciano a chiedersi, perchè lasciare a loro, tutti i beni rapinati ai Sardi? Allora, è suggerita l’ipotesi di chiedere un risarcimento immediato ma interviene il macellaio Ciccio Leccis: “Lasciateli andare, che noi sardi benché poveri non abbiamo bisogno della merda dei piemontesi”. “Procurad’ ‘e moderare,/ Barones, sa tirannia, /chi si no, pro vida mia, /torrade a pe’ in terra!” (Cercate di moderare / baroni, la tirannia, / ché se no, per la mia vita!, / tornate a piedi a terra! Recitano alcuni versi de Su patriottu sardu a sos Feudatarios (Il patriota sardo ai Feudatari).
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Fu un episodio sicuramente considerevole per l’isola, per quei moti antifeudali, anche se certuni non approvò la lettura dei fatti, che lo animarono. Rientrata la rivolta, alcune richieste saranno accolte nel 1796. Nel 1993, il Consiglio Regionale sardo, con la legge n.44, ha istituito “Sa die de Sa Sardigna” come festa regionale, il 28 aprile di ogni anno, in ricordo di quell’avvenimento del 1794.
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“Il Giorno della Sardegna” è raccontato con manifestazioni culturali e una “rappresentazione scenica” degli scontri del 1794 nei luoghi reali, dove ebbero luogo gli avvenimenti, fino a qualche anno fa. Molti i sardi e i turisti si riversarono nel quartiere di Castello, l’elefante”: siamo tra quei sardi che non si perdevano quest’occasione. Ora, purtroppo con la pandemia, vera o falsa questo tipo di ricorrenze vengono meno. La Sardegna e l’Italia intera sono segregate e chissà quando finirà. Io avrei mandato il conto alla Cina per questo disastro mondiale. Chissà cosa ne pensa il governo italiano, molti lo vorrebbero sapere. (foto dal web/Social)
LE CONTROVERSIE DELL’ABBAZIA DI TERGU E CASTELSARDO
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di Ennio Porceddu
(12-4-2021) Negli stessi anni in cui il monastero benedettino di Saccargia raggiungeva i massimi splendori, un’altra chiesa, che il canonico Francesco Liperi Tolu di Osilo, nel 1912 definì monumentale, è l’abbazia Nostra Signora di Tergu (foto dal web/Social), sotto la giurisdizione di Osilo, che in quegli anni, poteva rivaleggiare per importanza e solidità economica. L’ingegner Dionigi Scano poneva l’abbazia nel territorio di Castelsardo. Di questo fatto ci fu una controversia tra il canonico di Osilo e quello di Castelsardo. Ha tal proposito il can. F. Liperi Tolu scrisse una lettera dettagliata all’ing. Dionigi Scano per spiegare quali difficoltà si trovasse il prete nell’officiare la Santa Messa, la questua, la festa della Madonna di Tergu il giorno 8 settembre. “Ella – scriveva il can Liperi – faccia rilevare l’importanza dell’edificio, il genere che non ha confronti (…). Pensi, che si sia già interessata per qualche cosa di meno che non sia la Chiesa di Tergu. Siccome dovrebbero concorrere nelle spese tutti gli enti interessati. Da tutto questo le controversie tra Osilo e l’arciprete Turritano si accentuarono a causa delle decime, dei diritti ed esenzioni. Nel 1143, esisteva già questa controversia, per cui il Papa Eugenio III inviò una bolla a Villano, allora arcivescovo di Pisa, per ricomporre la controversia sorta tra l’Arciprete di Torrese e i monaci dell’abbazia di Tergu. Dove si capisce che l’influenza dei monaci e l’importanza del monastero sono evidenti per la Chiesa. Un documento riporta lo storico Gattola e ricordato anche dal Tola nel suo dizionario, che il re concesse grandi privilegi all’abbazia.
La controversia durò oltre settecento anni. “Le cose andarono lisce – scrive il can. Liperi – fino al 1885. Gli osilesi esercitavano diverse funzioni, la S. Messa, la questua, tutte funzioni mattutine per giungere a Osilo trionfale. Nel 1850 un devoto chiede di poter pagare un panegirico alla festa di Tergu, la Collegiata non d’accordo per la brevità dell’ora. Ecco però, un fatto nuovo nel giorno della festività dell’8 settembre; nella sacrestia c’era un decreto del vescovo di allora Paolo Pinna che vietava la questua e la predicazione, Intervenne il canonico di Osilo Filippo Felice Serra che strappò il decreto e lo ridusse a pezzi. Il vescovo ricorse al metropolitano e Monsignor Marongiu in una lettera imponeva al parroco di Osilo di attenersi alla sola Messa e alle confessioni, per la buona pace di tutti finalmente la controversia finì.
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PALAZZO PILO BOYL, PIETRA
MILIARE DELLA CAGLIARI DEL ‘700
di Ennio Porceddu
(16-3-2021) A Cagliari palazzi che possono suscitare un certo interesse per il turista, non ne esistono, fatta eccezione per il palazzo Boyl (foto dal web/Social), la cui facciata imponente si affaccia sulla sommità del bastione San Remy che sembra sia a vigilare sull’incolumità della città. Una particolarità che ha incuriosito tutti sono le tre palle di cannone conficcati sulla facciata, che con l’aiuto di un binocolo si possono leggere le date: 1708, 1717, 1793. Risalendo alla storia, dal 1700 in poi, la città di Cagliari si trovò in conflitto con mezza Europa. A voler edificare il palazzo fu un discendente di Filippo Pilo Boyl, che nel XIV secolo aiutò gli aragonesi a sconfiggere i pisani e ad impadronirsi della rocca della città. Si racconta che i pisani quando lasciarono Castello, passarono dalla porta sotto la torre del Leone dove fu poi edificato il palazzo. Il conte Carlo era anche un architetto non molto originale, infatti, aveva l’abitudine di rifare quanto aveva visto in altre città del continente. Perciò volle costruire un palazzo di tale solennità che gli consentisse di ben figurare con i nobili della città. Perciò progetto l’opera che includesse la torre del Leone. Per far posto al nuovo caseggiato demolì una piccola torre del periodo pisano posta nel bastione di S. Caterina. Il palazzo Boyl risultò un enorme caseggiato di cinque piani in stile neoclassico. L’intenzione del conte era di dare al palazzo l’aspetto di un castello con una torre ai lati. Riuscì nel suo intento solo in parte: riuscì a erigere solo la torretta di sinistra, poi nel 1859 lo colse la morte. Pur non riuscendo a portare a termine il suo progetto, fece conficcare sulla facciata del palazzo le tre palle per ricordare le tre date di cui ho fatto cenno sopra. Poi, il palazzo è stato abbellito con la sistemazione di quattro statue che rappresentano le stagioni e al centro uno scudo con le armi delle famiglie Pilo e Boyl inquartate con i pali d’Aragona.A fine 1800 l'edificio appartenne alla famiglia Rossi, come ne simboleggia la "R", scolpita in qualche finestra. Attualmente ne sono i proprietari conti marchigiani Tomassini Barbarossa. L'edificio in stile neoclassico, è simile alla porta del Regio Arsenale militare e a porta Cristina, altre due opere di Carlo Pilo Boyl. Nell'edificio vi è una balaustra marmorea ornata da quattro statue, ognuna delle quali simboleggia una stagione, mentre nel mezzo è scolpito lo stemma del casato. Una mano che tiene un ciuffo di capelli (in sardo pilu) per il casato Pilo, un toro (in sardo boi) per la famiglia Boyl e quello d'Aragona (dei pali rossi su sfondo dorato). Il palazzo incorpora la torre del Leone (menzionata erroneamente "torre dell'Aquila") costruita dall'architetto Giovanni Capula, autore anche delle altre due torri di Cagliari: la torre dell'Elefante e la torre di San Pancrazio. Venne gravemente danneggiata nel 1708 dai bombardamenti inglesi, nel 1717 dai cannoni spagnoli e infine nel 1793 . Dall'attacco da parte dei francesi la torre perse la sua parte superiore e, ridotta quasi ad un rudere, venne incorporata nell'edificio.
E' MORTO RAOUL CASADEI, IL RE
DEL LISCIO. AVEVA 83 ANNI
Negli anni sessanta aveva preso
in eredità l’orchestra dello zio
UN SUCCESSO INCREDIBILE:
350 CONCERTI ALL'ANNO
di Ennio Porceddu
(13-3-2021) Raul Casadei (foto dal web/Social), l’uomo che ha tramutato il folklore romagnolo in un genere riconosciuto e apprezzato in tutta d’Italia è deceduto Aveva 83 anni. Famoso il brano ‘Romagna Mia’ composta dallo zio, Secondo Casadei, che lui ha costruito una carriera leggendaria all’insegna dell’allegria, della solarità e della genuinità tipica della sua terra. Se ne è andato dopo essere stato ricoverato, il 2 marzo, all’ospedale Bufalini di Cesena per Covid. La notizia è stata data alcune ore fa dall’agenzia Ansa. Era stato ricoverato in ospedale dopo che i medici avevano notato una lieve polmonite e ne avevano consigliato il ricovero. Dopo una decina di giorni di lotta contro il virus e l’aggravarsi delle condizioni il re del liscio non ce la fatta. E’ calato il sipario su un artista che ha fatto della musica il suo modo di vivere, una vita lasciata in eredità l’orchestra fondata dallo zio Secondo Casadei, di Villamarina di Cesenatico nel lontano 1928 e inventore del liscio. Raul, come ha avuto l’occasione di raccontare al suo ottantesimo compleanno, negli anni sessanta era un maestro elementare con la passione per la chitarra. Poi, ottenuta l’eredità, negli anni settanta ha avuto un eccezionale successo con l’orchestra e con i suoi dischi. “ Da solo disse – vendevo più dischi di tutti gli artisti che erano nella mia casa discografica”, la Produttori Associati, che vantava gente del calibro di Fabrizio De Andre’. Facevo 300/350 concerto l’anno. Incredibile. La sua orchestra era capace di coinvolgere le persone, non solo nei locali tradizionalmente dedicati al folk con la mia ‘Musica Solare”. Nel 2000, ha lasciato dato le redini dell’orchestra al figlio Mirko, che ha continuato la sua strada Raul Casadei, tra i tanti riconoscimenti ricevuti, è stato insignito, nel 2019, del “Premio Romagnolo dell’Anno” e ha partecipato al film’Tutto Liscio’, uscito nel 2019, dove ha interpretato se stesso. Fra le sue canzoni più note dell’orchestra Casadei “Ciao Mare”, “Romagna e Sangiovese” “Simpatia”, la “Musica Solare” e “Romagna Capitale”.
TESTIMONIANZA, GLI ANNI
DEL COLERA A CAGLIARI
di Ennio Porceddu
(9-3-2021) Nel 1973 tredici persone furono colpite dal vibrione del colera. Tutto incominciò alle ore 23 del 31 agosto quando il telefono del reparto infettivi dell’ospedale SS. Trinità di Cagliari, sistemato nel lungo e buio corridoio, squillò insistentemente. Dall’altro capo del filo un medico del pronto soccorso dell’Ospedale S. Giovanni di Dio – piuttosto preoccupato – chiedeva di parlare col medico di guardia del reparto che non c’era, perché essendo unico per tutto il complesso ospedaliero, in quel momento si trovava nel reparto Medicina per un ricovero. Avvisato subito, il sanitario scoprì che il medico del S. Giovanni di Dio aveva appena visitato un paziente con probabile affezione da colera: i sintomi erano inconfondibili. Era il primo caso di colera dopo 62 anni. Infatti, nel 1911 a Cagliari (foto di Augusto Maccioni) ci fu un’epidemia colerica che aveva colpito i quartieri di Stampace (fra via Azuni e via S. Margherita), Corso Vittorio Emanuele fino al sobborgo di S. Avendrace e via Garibaldi (vicoli compresi). IL paziente si chiamava A. M., 50 anni di Selargius, di professione arsellaro. Nei giorni che seguirono ci furono altri dodici casi. Tutti colpiti dal ceppo El Tor Ogawa. Un paziente, dopo alcune ore del suo ricovero morì. I giornali parlarono del primo decesso per colera, ma non era la verità: il paziente aveva mangiato dell’uva non lavata e ancora impregnata dal verde rame. Il verderame, essendo un fungicida a base di rame, presenta una certa tossicità. Furono individuati anche sette familiari asintomatici con escrezione del vibrione cholerae. Dei tredici pazienti, il più giovane aveva appena ventidue anni: otto erano di sesso maschile. Per tutti si era accertato che la causa primaria era dovuta alle arselle crude ingerite pochi giorni prima, provenienti dallo stagno Santa Gilla. Nove di questi pazienti erano soliti pescare molluschi personalmente nella zona meridionale dello stagno, alimentato da vari sbocchi di fognature e da piccoli canali che collegavano le acque salmastre, nei pressi del giacimento con le acque del porto. Per l’Istituto Superiore di Sanità, sul banco degli imputati c’erano appunto le arselle. Sul piano epidemiologico risultò, fra gli esemplari esaminati, che le arselle aveva il vibrione cholerae: Le arselle erano di tipo Eulamellibranchi, appartenenti allo stesso ordine delle ostriche e delle vongole.Le persone colpite dal colera furono ricoverate al primo piano della nuova Divisione di Malattie Infettive (appena ristrutturato) diretto dal prof. Goffredo Angioni. Questa sezione del primo piano fu improvvisata con brandine di emergenza e rese possibili il ricovero di quanti - numerosi . presentavano una sintomatologia sospetta o una presunta gastroenterite acuta dopo ave ingerito molluschi crudi.
All’ora su l’eco di quanto stava avvenendo in Campania e Puglia, Cagliari era letteralmente sotto choc: l’ambulatorio della Divisione Malattie Infettive era preso d’assalto all’inverosimile. La cittadinanza per non correre rischi (il colera faceva paura) si presentava ai pronto soccorso dei nosocomi cittadini per essere sottoposti a visita medica. Il caos era totale. Ogni piccolo disturbo intestinale creava panico. Gli infermieri e i medici del reparto infettivi furono mobilitati e sottoposti ad un super lavoro : spesso di 16-20 ore al giorno. mentre una equipe di paramedici fu messo in quarantena per prestare un’assistenza continua ai circa 80 pazienti ricoverati.
Intanto, ogni giorno radio Sardegna e la televisione invitava i cittadini a osservare al massimo l’igiene: un toccasana per tutti era “acqua e sapone”, niente frutti di mare e ingerire molta frutta e verdura ben lavata.
Per immunizzare quante più persone possibili, l’Assessorato Regionale della Sanità penso di far arrivare i vaccini. Si organizzò un ambulatorio al piano terra della Divisione Malattie Infettive dove furono mobilitati altri medici e infermieri che fuori dall’orario di servizio prestarono la loro opera con abnegazione. Era una corsa al tempo. Si doveva vaccinare quante persone possibili per poter sconfiggere il vibrione. La gente rispose all’appello della sanità pubblica e affluiva in massa verso l’ospedale, per cui ogni giorno si presentarono migliaia di persone formando una lunga coda che iniziava da metà della via Is Mirrionis fino all’ingresso del reparto. Tutti i giorni, per qualche settimana nell’ambulatorio vaccinale si lavorò intensamente.
Nello stagno S. Gilla le autorità sanitarie vietarono la raccolta delle arselle (divieto che perdurò per moltissimi anni), Poi a metà del mese di ottobre (dopo 45 giorni d’inferno), il colera fu debellato, per riapparire nel novembre del 1979. A essere colpita per prima, fu un’anziana signora di Quartu S. Elena di settantasette anni. esattamente due giorni dopo un’intervita rilasciata dal Dr. Berretta igienista AL giornalista Augusto Maccioni di Radio Cagliari Centrale diretta da chi scrive. Secondo l’igienista “la situazione igienico sanitario di Quartu S. Elena è sotto controllo”. “Il giorno 2 novembre – dirà il prof. Angioni in un’intervita alla radio succitata – abbiamo ricoverato la signora G. C. di Quartu S. Elena che, cinque giorni prima aveva acquistato delle arselle in una pescheria sita nel comune. La paziente prima di venire in questa Divisione è stata ricoverata all’’Istituto di Patologia Medica perché presentava scariche diarroiche e condizioni generali compromesse”
L’Istituto di Patologia Medica diagnosticò il sospetto di colera prima e affetta da cholerae poi.La paziente fu subito isolata e trattata con un’adeguata terapia medica. Poi furono ricoverati altri se pazienti, fra i quali un ragazzo sordomuto. Dopo una degenza di cinque settimane, tutti i pazienti furono dimessi e seguiti ambulatorialmente per alcuni mesi. Una particolarità del colera è che colpisce quasi sempre i quartieri poveri e spesso più emarginati di una città, è sempre buona abitudine, quando di acquistano delle arselle di lavarle bene con acqua corrente e cuocerle. Mai mangiarle non cotte. Un altro consiglio: mai acquistare arselle o mitili che hanno sostato per molte ore al sole.
PASSEGGIANDO PER CAGLIARI
VISITA AL NUOVO AMBULATORIO
CHIRURGICO AVANZATO DEL
DR. GIORGIO MATTANA
di Ennio Porceddu
(11-1-2021) Alcuni giorni or sono, ho fatto una passeggiata per le strade di Cagliari, ancora in zona gialla covid, imposta dal governo. Il mio intento era quello di macinare un po’ di kilometri e poi visitare il nuovo ambulatorio Chirurgico Avanzato “Oculus Centro Oculistico Laser”, sito in via Molise 40. Un Centro accreditato dalla Regione Sardegna come “Ambulatorio Chirurgico Avanzato”. Ed ho scoperto che ha dirigerlo è lo stesso fondatore e direttore sanitario D. Giorgio Mattana (foto) con spalle un’esperienza di ben 35 anni, con oltre 40.000 interventi chirurgici effettuati ed è considerato uno tra i chirurghi più esperti nel campo della chirurgia oculare. Visitando il Centro con la guida dello stesso Dr. Mattana ho potuto constatare che è dotato di tutte le apparecchiature più moderne e all’avanguardia per la diagnosi e la cura delle patologie oculari, pertanto il paziente potrà essere seguito per tutto il suo percorso , dalla visita all’intervento chirurgico, da uno Staff ad altissima specializzazione e con un’elevata esperienza sul campo, utilizzando le più moderne e sofisticate apparecchiature. Al Centro Oculus accreditato dalla Regione Sardegna, ha la principale sala operatoria che è stata allestita seguendo le più recenti direttive della delibera regionale G:R: n. 51/22, ed è possibile effettuare interventi chirurgici senza più le lunghe attese a cui ognuno di noi era abituato.
Inoltre grazie ai numerosi protocolli attuati per il Covid 19 e al minore afflusso di persone rispetto a una struttura ospedaliera, è garantita la totale sicurezza per il paziente durante tutto il percorso di cura. Durante la visita al Centro, il Dr. Mattana mi spiega “Siamo impegnati nell’offrire il miglior servizio possibile, saia dal lato medico che da quello umano”. “Da noi – è infatti possibile la diagnosi grazie a visite oculistiche accurate con l’aiuto di esami diagnostici moderni ed intervenire immediatamente con l’intervento chirurgico qualora fosse necessario. In Sardegna siamo conformi alle migliori realtà nel campo dell’oculistica, soprattutto per quanto riguarda la Chirurgia Laser”. Inoltre il Centro Oculus è particolarmente impegnato nella chirurgia della Cataratta con tecnica Femto Laser Flac con impianto di Lenti Premium e nella chirurgia Refrattiva Laser, tecniche che permettono di eliminare i difetti visivi (miopia, ipermetropia, astigmatismo e Presbiopia). Durante la visita al Centro, il Dr. Mattana mi informa quali sono gli altri interventi oltre quelli citati: Cataratta con tecnica di Facomulsificazione ad ultrasuoni,Cheratocono,Argo laser, Argo per patologie retiniche, Yag Laser per cataratta secondario o glaucoma, Vitrecomia anteriore e posteriore, Glaucoma, Stenosi vie lacrimali, interventi alle palpebre (Calazio, orzaioli, cisti, entropion, ptosi palpebrale, blefaroplastica). La mia visita al Centro è durata quasi un’ora. Un’ora dove ho potuto acquisire interessanti informazioni sull’attività del Centro Oculus Laser. Un Centro, come accennato all’inizio, nato dopo 35 anni di esperienza professionale.
Per contatti: Via Molise 40 Cagliari / tel. 070370710 – cell.: 3475869129. Per chi vuole: vedi anche Facebook, Instagram e You Tube.
LA GROTTA DELLA VIPERA
IN UNA CAGLIARI FELICE E SOLARE
di Ennio Porceddu
(18-12-2020) Sfogliando alcune riviste degli anni ’70 ho trovato un articolo che parla della Grotta della vipera (foto dal web/Social) e dei versi grafiti sulla pietra. L’articolo lo trovato su Terza Pagina cartacea (anno 1 N° 1 - 1977) intitolato “Cagliari : una città solare” di I. De Magistris. (Tenditum per longum Karalis). Vale a dire: Si passa attraverso una lunga Karalis. Parlando di una cosa che a noi cagliaritani ci appartiene, ne voglio riproporre alcuni passaggi.“Credo che non ci sia un cagliaritano che abbia un minimo di istruzione - scrive De Magistris - il quale facendo sfoggio di erudizione dovendo dare una qualche indicazione generale sulla città , non sappia citare il verso Tenditum per longum Karalis!”“Sono altrettanto sicuro che siano pochi i cagliaritani che sanno che la loro città è custode di alcuni versi grafiti sulla pietra nella Grotta della vipera. Sono versi – continua De Magistris che danno dignità poetica a un autore. Purtroppo scrive “ il poeta di lingua greca della Grotta è ignoto e che costituisce titolo di ammissione alla patria delle letture per la città che li conserva”.“A godimento di quanti non conoscono questi versi, li riporto nella traduzione italiana che esclude – chiarisce, non è mia altrimenti sarei un poeta. Ecco il primo verso: Dalle tue ceneri O Pontilla germogliano viole e gigli e possa tu cosi rifiorire nei petali delle rose” (Nec violae semper nec germinabit virga lilia ex favilla et tu Domine Pontilla revirida in petalis de rosis).“Purtroppo però, mentre è innegabilmente poeta chi ha scritto questi versi, si è dimostrato poco profeta. Infatti, i cagliaritani di tutti i secoli che sono seguiti non hanno eccelso nelle letture e nemmeno in poesia , tanto in lingua quanto in dialetto. Dicendo questo - aggiunge l’autore- non voglio essere ipercritico, ma intendo semplicemente affermare che, aimè, anche se qualcuno in questi ultimi due secoli emerso un poco, nessuno ha mai eccelso.
Quando ha scritto quest’articolo, il De Magistris aveva un problema che è oggi attuale: La città era piovosa. “Una città maledettamente piovosa”. Anzi, per meglio dire; un inverno maledettamente piovoso. Poi si tranquillizza affermando che la meteorologia di lì a poco lo conforterà un bel sole splendente di gennaio e febbraio e con l’azzurro del cielo. De Magistris in quel momento deve ritenersi fortunato: c’era la pioggia ma non c’era la pandemia.
La Grotta della Vipera" è situata nel Viale S. Avendrace. Il nome "Grotta della Vipera", deriva dalla presenza sul frontone di due serpenti scolpiti affrontati, il cui significato è stato variamente interpretato dagli studiosi: secondo alcuni, essi rappresenterebbero le figure divine di Isis e Osiris. secondo altri, si tratterebbe invece della rappresentazione simbolica di Lucio Cassio Filippo e di Atilia Pomptilla e, al contempo, della fedeltà coniugale, oltre che un monito ai passanti per il rispetto del luogo funebre. In realtà è un ipogeo funerario (ossia una catacomba scavata nella roccia). Cioè, un mausoleo familiare della nobildonna romana Atilia Pomptilla e del marito Lucio Cassio Filippo. Quest'ultimo, si volle affermare che era parente dell'anziano giurista Gaio Cassio Longino, esiliato in Sardegna dall'imperatore Nerone nel 65 d.C. Anche Lucio Cassio Filippo e la consorte Atilia Pomptilla erano stati condannati all'esilio nell'isola.
La facciata, della Grotta scavata nella roccia, riproduce quella di un tempietto in stile ionico composito di Cagliari, dove secondo gli amanti della città il cielo è più azzurro e fa manto allo scenario lontano dei monti dei sette Fratelli e di Serpeddi da un lato e dai monti di Capoterra dall’altro e alla distesa del Campidano, al luccichio dello Stagno di Santa Gilla, Molentargiu e al Golfo che i geologi chiamano Golfo degli Angeli. All'interno, il mausoleo è suddiviso in tre ambienti: un vestibolo, una prima camera funeraria, una seconda camera funeraria. Nel mausoleo risultano praticati sia il rito funerario dell'inumazione sia quello dell'incinerazione.
(Alcuni note sono da Google, altre da Terzapagina anno 1 numero 1 - 1977)
La presenza dei
fenici in Sardegna
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di Ennio Porceddu
(16-12-2020 / 16-12-2019) Che la Sardegna fosse di grande interesse commerciale, lo dimostra un’epigrafe presumibilmente del IX secolo a. C. ed è considerato il più antico documento scritto trovato nell’isola, anche se, con certezza, si può affermare che i primi abitatori di questa penisoletta, furono i Proto sardi. Tuttavia non possiamo risalire con certezza al periodo in cui questo popolo semitico si stabilì nell’isola, per mancanza di altri indizi.L’epigrafe reca incise delle lettere (da destra verso sinistra) ”b sh r d n” che se noi inseriamo la vocale “a” forma la parola “Ba shardan” cioè Sardegna.Questo è l’unico documento storico a disposizione, che dimostra la presenza della popolazione fenicia in Sardegna.Comunque è certo che questo popolo, tenendo conto della situazione economica del loro paese, rivolse lo sguardo sull’isola e principalmente sulle coste, spinti dall’idea di trovare immense ricchezze naturali che avrebbero costituito principali fonti di prosperità per i loro fabbisogni.I fenici prima approdarono lungo le coste(foto dal web/Social Tharros), dove certamente iniziarono il commercio con gli “indigeni”. Poi si spinsero più all’interno e forse formarono delle colonie o vere città. Alcune di queste colonie furono Kàralis (Cagliari), Nora (poco distante da Pula), Sulci (per indicare il bacino minerario dell’iglesiente, che doveva essere senza dubbio una fonte economica considerevole, e Tharros (nel Sinis – Oristano).Era caratteristica la posizione topografica delle colonie fenicie. Infatti, queste rispecchiavano, per ubicazione, quelle della madre patria: Su di una lingua di terra protesa verso il mare, con due parti utilizzabili a secondo dei venti, e alla estremità una insenatura o meglio su un’isola affacciata al continente.Tutto questo era studiato in modo che la colonia fosse accessibile dal mare, e nello stesso tempo difendibile dalla parte della terra.Tuttavia è possibile che oltre a esserci una certa colonizzazione, ci fosse stato un vero dominio di questo popolo che contribuì a incrementare alcune attività quali l’estrazione dei minerali dal sottosuolo, l’industria del sale o della pesca. Con la colonizzazione dei fenici, i sardi poterono entrare in contatto con la scrittura, ignorata dai nuragici fino a quel periodo.Oltre all’epigrafe, può essere presa in considerazione un’altra traccia che testimonierebbe la presenza fenicia non solo sulle coste, ma anche nell’entroterra. Secondo alcuni ricercatori della zona del Cixerri, in prossimità della chiesa di San Giacomo a Siliqua, in località Sui Cunventeddu, ci siano i resti di fondamenta fenicie. Un’ipotesi ancora da avvalorare dopo accurati scavi archeologici.Dei fenici, comunque, non conosciamo molto. Non si conosce com’era articolato l’ordinamento politica, neanche il riferimento al governo delle colonia. L’unica cosa che si conosce è la religione che era politeistica con carattere strettamente agrario, mentre le divinità erano rappresentate da pietre a forma di colonne o coni e rispondevano a nomi quali Ball e Astarte, presumibilmente, in relazione ai luoghi dove il culto veniva praticato.
FESTE CIVILI E RELIGIOSE
IN SARDEGNA
LA FESTA DI SANT’ANTIOCO A
CAGLIARI NEL 1600 ERA UNA REALTA’
di Ennio Porceddu
(20-10-2020) Generalmente le principali sagre in Sardegna, nei libri sono descritte seguendo un ordine temporale legato all’avvicendarsi delle stagioni e dei mesi dell’anno. In questi libri mancano alcuni riferimenti Essi scandiscono la vita delle collettività isolane attraverso un calendario che non necessariamente ricalca quello liturgico cristiano o l’anno della loro nascita. Nel compendio di leggi, decreti e ordinanze “Leyes y pragmáticas” del ricercatore sassarese F. Angelo Vico e edita a Napoli nel 1640, si attesta che “nella Cagliari del primo Seicento, la vita sociale e collettiva era giunta a un certo grado di organizzazione e di perfezione e le festività religiose e civili erano molteplici”. Ad affermarlo c’è anche Joaquín Arce, autore di molti lavori tra cui “La Spagna in Sardegna” (Madrid 1960 e Cagliari 1982), dove si legge che, “senza contare le domeniche, le feste di Natale e di Pasqua e le altre feste mobili, erano ben settantaquattro le festività infrasettimanali”. In pratica dice che i sardi, in quei giorni, onoravano i patroni dei gremi e delle confraternite e i santi ai quali si rivolgevano per chiedere di preservarli dalle malattie e dalle lunghe carestie. Molte feste sono scomparse e non restano tracce. Altre si sono estinte molti anni fa, altri ancora, addirittura due secoli fa, come la sagra di S. Antioco (foto dal web/Social) che si svolgeva a Cagliari, il 5 maggio, nella collina di Bonaria, a cui partecipavano i contadini con le traccas, provenienti da diverse parti del Campidano. Ne abbiamo notizia dal Fuos, un cappellano militare , che percorse la Sardegna negli anni Settanta del secolo XVIII e ci lasciò un’interessante descrizione nel testo «La Sardegna nel 1773-1776 descritta da un contemporaneo”. Joseph Fuos, pastore luterano cappellano militare e memorialista dell’ Isola sabauda settecentesca, riferisce che la sagra di S. Antioco era, con quella di Sant’Efisio, la più rilevante in tutto l’anno e aveva carattere spiccatamente rurale. La descrizione che fa il Fuos sulle traccas, che intervenivano a decine alla sagra, è interessantissima. Lo cita anche F. Alziator nel libro «La città del sole». L'attribuzione a Joseph Fuos è che l'autore anonimo del libro con questo titolo, apparso a Lipsia nel 1780 in forma di una raccolta di tredici lettere destinate a un anonimo barone del Baden, è stato in Sardegna, a Cagliari, negli anni dal 1773 al 1777, in qualità di cappellano militare, probabilmente del reggimento di svizzeri Royal Allemand allora di guarnigione a Cagliari al servizio del Re di Sardegna. La notorietà dell'opera e del suo probabile autore si deve alla tarda edizione italiana dell'avvocato cagliaritano Pasquale Gastaldi Millelire nel 1899. Parecchi dei successivi viaggiatori e memorialisti in Sardegna hanno attinto liberamente a questo suo testo, specie dopo la traduzione italiana e in particolare per quanto riguarda le usanze locali e i giudizi sul carattere e sul modo di vivere dei sardi di quei tempi e nel passato.
La cantante sarda, ripartendo dal profondo Sulcis e dalle doloranti esperienze di fatica, di dramma e di morte, ha ritrovato, con le canzoni popolari sarde, l'antica anima dei suoi progenitori barbaricini.
ANNA LODDO
e il tremolio di canne
di Ennio Porceddu
Qualcuno ha scritto che è un "vulcano in eruzione" e, tra le più rappresentative del folck sardo. Un critico, invece, ha affermato che Anna Loddo “sa esprimere con la sua musica la magia e l’arte popolare, vibrazione di un sentimento profondo, dove riaffiora, con struggente malinconia, la nostalgia per modo d’essere e “diverso”, più intimo e sofferto”.Anna Loddo, nata a Carbonia, ma cagliaritana di adozione, è un'interprete dotata di gran sensibilità percettività e raffinata espressività, con la sua voce calda e appassionata, canta d’istinto l’antica anima dei progenitori barbaricini ripartendo dalle esperienze del profondo Sulcis, dalle brutture della vita e dalla fatica per esistere, dai drammi della gente fino alla fine.Nelle sue canzoni c’è sempre la dolcezza, le gioie, e insieme i tormenti, le passioni e la disperazione e solitudine di un popolo da sempre vessato e costretto alla recessione.Sono canti chela Folck Singer, interpreta con grande amore. Sono lamenti reconditi di Sardegna, una terra, una patria perduta, con una cultura autentica e genuina che è stata soffocata, ma che, per fortuna, si può ancora salvare. “La speranza è sempre l’ultima a morire”.
Anna Loddo è la voce dell’Isola. L’unica e vera ambasciatrice del folklore sardo nel mondo.Tantissime le tournée, la partecipazione a programmi televisivi nazionali: Adesso Musica; Un’ora con voi con Corrado; Canto popolare con Lilian Terry; Natale ‘76; L’altra campana con Enzo Tortora; Fantastico 5 con Pippo Baudo. Diversi anche i concerti e le apparizioni televisive all’estero.La carriera della Folk Singer Sarda è nata a metà degli anni ‘50, ma fin da bambina si è sempre dedicata al canto studiando musica e solfeggio.Ha vinto tanti concorsi nazionali e internazionali, due medaglie d’oro; ma il più importante riconoscimento per lei, quando classificò prima al concorso nazionale: “Alla ricerca del folklore italiano”, organizzato dalla RAI-TV. Tra le dieci finaliste perla Sardegna, si piazzò al 1°posto con la canzone “A Desulo”, poesia del famoso poeta Antioco Casula “ noto “Montanaru”, che la cantante adattò al canto Nuorese. L'esibizione fu un grandissimo successo; un successo che le aprì le porte del firmamento musicale e dei contratti discografici. Da quel momento Anna Loddo s'impose al grande pubblico in Italia e all'estero.Di Anna, il giornalista e critico d'arte prof. Fernando Pilia aveva scritto: "Nel quadro del recupero e del rilancio del fascinoso patrimonio etnomusicale della Sardegna, in concomitanza col nuovo corso del folk italiano, notevole è la presenza di Anna Loddo che, ripartendo dal profondo Sulcis. dalle doloranti esperienze di fatica, di dramma e di morte, ha ritrovato l'antica anima dei suoi progenitori barbaricini. Con la sua voce calda e appassionata, canta d'istinto, con duttile versatilità, nelle diverse "mode" isolane, esprimendo tutta la dolcezza e tutta la disperazione di un popolo ingannato dalla fortuna, vittima della sua solitudine, segregato in un antica recessione, ma ancora oggi capace di slanci vigorosi verso originali e suggestive melodie che sono rimaste immutate da millenni (...) Nelle interpretazioni di Anna Loddo si sente la magia di questa arte popolare, c'è la vibrazione di un sentimento profondo, riaffiora, con struggente malinconia, la nostalgia per un modo di essere che è "diverso", più intimo e sofferto".
Sentimento profondo che ha saputo ancora una volta esternare nel concerto all'Anfiteatro con Noa un'artista israeliana profondamente impegnata nell'utilizzo della musica come strumento di riavvicinamento fra popoli in conflitto.Quando qualche giornalista le chiede qual è il brano che l'affascina di più, la risposta dell'amica Loddo è sempre la stessa: "Non potho reposare", incluso nel 33 giri ""Tremolio di canne", una interpretazione molto diversa da altri artisti, interpretazione particolare e soprattutto genuina.Durante tutta la sua lunga carriera ha inciso quattro dischi LP e un 45 giri. Due perla Fonit- Cetra di Torino, gli altri con l’Aedo: “Anna Loddo tremolio di canne (ca so tremende che fozzas de canne) ”. Quest'ultima pubblicazione risale al 1975; “Sardegna”; “In concerto”; “A unu frade sorridente”, contenente una poesia di Graziano Mesina “Unu frade sorridente (“Visita in camposanto”), scritta nel1972 incarcere e, dedicato al fratello Giovanni, ucciso nel pieno della sua giovinezza, che Anna Loddo ha voluto rivestire di musica; e infine “Es nadu su bambinu”/”Pizzineddu” (disco 45).
Altri brani sono inclusi in alcuni CD che fanno bella mostra nelle vetrine dei negozi di dischi specializzati e nelle piattaforme On line.Nel 1976 la troviamo “madrina” al Festival dei BambiniLa Palmad’Oro di Cagliari, chiamata da chi scrive, organizzatore dell'evento, dove ottiene un gran successo.Sempre lo stesso anno, in collaborazione col coretto “I Piccoli Cantori Sardi”, diretti da chi scrive, il 45 giri “Es nadu su bambinu”, un disco prodotto dall’Aedo di Pizzi, e distribuito nell’Isola e all’estero in occasione del Natale. Diverse le apparizioni in televisione, sia locali che Nazionali e i concerti nelle piazze dell'isola, in occasione delle feste popolari.
Tracce discografiche
Anna Loddo
Sardegna (disco 33 giri, Fonit-Cetra).
Tremolio di canne (disco 33 giri Fonit-Cetra, 1975).
In concerto (disco 33 giri, Aedo).
A unu frade sorridente (disco 33 giri, Aedo).
Anna Loddo con i Piccoli Cantori Sardi diretti da Ennio Porceddu
Es nadu su bambinu / Su pizzineddu (con i chitarristi Nanni Serra e Pino Pisano).
(disco 45 giri, Aedo, Cagliari, 1976)